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ISPETTORE CALLAGHAN IL CASO SCORPIO E' TUO
(DIRTY HARRY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 dicembre 2008
 
.di Don Siegel, con Clint Eastwood, Andy Robinson, Harry Guardino, Reni Santon (Stati Uniti, 1971)
 

Personaggio ormai mitico nell'universo del film poliziesco, l'ispettore Dirty Harry, com'è chiamato più appropriatamente nella versione originale, deve il proprio soprannome ai mezzi spicci cui ricorre in seno alla polizia di San Francisco (o, secondo una versione più benevola, in riferimento alle bisogne più sporche cui è regolarmente chiamato). Come qui: catturare un psicopatico che non solo si diletta a giocherellare nel mirino con le proprie vittime prima di premere il grilletto (la piscina sul tetto del grattacielo inquadrata nella sequenza iniziale, la vittima in costume da bagno inquadrata a lungo, l'acqua che si tinge di rosso), ma in alternanza rapisce, ricatta ed uccide.

Più che il tema, è l'ambiguità del cinema di Siegel a confermarne l'interesse a più di una generazione di "noir"di distanza. Dirty Harry raggiunge finalmente il killer, lo blocca nel mezzo di uno stadio deserto, gli calpesta la gamba ferita in precedenza, ed ottiene così l'ubicazione del nascondiglio della ragazza rapita (e regolarmente liquidata). Ma l'assassino viene rilasciato: la confessione è stata ottenuta in seguito a tortura, ed il fucile requisito in assenza di un mandato di perquisizione. Ci penserà Harry, inutile dirlo, a sistemare le cose: ma non senza aver deciso di buttare nello stagno la sua insegna di poliziotto.

Accusato a suo tempo di essere uno degli esempi massimi di cinema "fascista" per la facilità con la quale trascurava gli scrupoli imperanti fino ad allora in tema di morale, diritti umani e giustizia, si comprende meglio ora (quando di acqua in materia ne è ormai trascorsa sotto i ponti...) perché Siegel e il film fecero ripartire un genere ancorato a regole scontate. Facendone il precursore di tutta una serie di pellicole dedicate al medesimo personaggio, oltre che di tutto un cinema: fatto di antieroi disullusi, frustrati e melanconici, addirittura autoflagellati, poi ripresi in parte dal Clint Eastwood.

Regista aggressivo per il suo modo di azzerare la differenza fra le diverse violenze, barocco e prorompente, immerso nella dimensione urbana (indagata dal cielo alla terra grazie ad un uso memorabile del Cinemascope) come nella realtà sociale, incollato all'incalzare inarrestabile dei ritmi più che alle sottigliezze psicologiche, esaltato dal commento musicale di Lalo Schifrin, scandito da un dialogo che entrerà a far parte del repertorio di culto ("Ask yourself: do I feel lucky?"), il Don Siegel di DIRTY HARRY crea anche un film contradditorio. Ma, impressionante. Fatto (anche se gli autori lo hanno sempre negato ) per affascinare come pochi, e pure irritare. Osservato a decenni di distanza da quel preciso momento storico di un'America post-Vietnam trascritta comunque mirabilmente, non è però tanto l'ambiguità del film a risaltare.

Quanto il carattere imperiosamente anticipatorio di uno sguardo. Come accade solo nei capolavori. Al Don Siegel di DIRTY HARRY appare sempre più impossibile negare la concezione di un cinema in divenire, da quello dei fratelli Cronenberg al David Fincher che non a caso lo citerà in ZODIAC, alle estetiche trionfanti trent'anni dopo nelle serie di CSI o 24 HOURS.

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