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L'ANNO DEL DRAGONE
(YEAR OF THE DRAGON)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 dicembre 1985
 
di Michael Cimino, con Mickey Rourke, John Lone, Ariane (Stati Uniti, 1985)
 

Il super poliziotto bianco che fa piazza pulita della mafia gialla, il duro seducente che crede alla giustizia assoluta, litiga coi suoi capi che condizionati dai politici, gli impediscono di agire. Il giustiziere dall'andatura sciolta e dai mezzi sbrigativi (specie dopo che i cattivi gli hanno ammazzato la moglie) sembra riproporre lo schema risaputo del film poliziesco. O, peggio ancora, un novello Rambo destinato a conquistare i mercati dello spettacolo (specie dopo il celebre fallimento di Le porte del cielo) ed a curare le frustrazioni post vietnamite del pubblico americano.

I detrattori del più celebre masochista del cinema americano si disilludano: L'ANNO DEL DRAGONE non è un film razzista. È un film appassionato. Ed è scritto con una maestria che trova pochissimi paragoni nel cinema in circolazione. Anche di John Ford si diceva che era razzista, perché nei suoi film si uccidevano gli indiani. E L'ANNO DEL DRAGONE fa pensare molto a Ford, e non solo perché i bianchi cercano di uccidere i gialli di Chinatown. Come Ford, Cimino è uno che crede alle storie che racconta.

Non come Coppola, o come Scorsese. Che riprendono i miti per un loro discorso stilistico. Come Ford, Cimino è uno che crede nell'America, nei suoi ideali storici, nelle nuove frontiere, o nel sogno del "melting pot", quel miscuglio di razze immigrate, fuse in un'unica fede. Ma Cimino, differentemente da John Ford, ha vissuto una generazione più tardi. Ha vissuto (ricordate IL CACCIATORE!) il Vietnam. E ci parla di tutte quelle cose, marcato, come tutti gli americani, da quell'esperienza traumatica.

L'ANNO DEL DRAGONE è anche un film poliziesco: ma è, prima di ogni altra cosa, un film sull'America, sul crollo delle illusioni. Il poliziotto Stanley White (bianco...) non combatte i cattivi mafiosi perché gialli. Ma perché essi sono identici a lui, polacco, immigrato, diviso nei confronti non solo delle altre razze di un "melting pot" impossibile, ma anche nei confronti della propria casta, dei propri superiori, degli amici, della moglie. Non solo è proprio White a denunciare i soprusi dei banchi nei confronti dei gialli (la legge che impediva, prima del 1943, la cittadinanza americana agli immigrati cinesi) ma, come se non bastasse, s'innamora di una ragazza meticcia. E, soprattutto, egli s'immedesima letteralmente, qualcuno ha notato omosessualmente, (fino alla straordinaria sequenza finale del duello sul ponte) col proprio avversario: Joey Tai è come lui. Una vittima della divisione fra le razze, un individuo alla ricerca dell'assoluto. La rabbia, la violenza che è alla base del loro scontro nasce da quel sentimento di eguaglianza, di appartenenza ad una medesima condizione quella di essere il frutto di un rigetto.

La violenza del film non è quindi mai gratuita, non è squallidamente spettacolare né tanto meno razzista come l'ha definita frettolosamente (perché i personaggi come Cimino sono scomodi) la stampa americana. E il risultato di un'amarezza che, per la sincerità che traspare da ogni immagine, diventa commovente.

Fra le idiozie adolescenziali che ci propina il cinema americano il film di Cimino brilla di uno splendore isolato: perché non solo ci parla di qualcosa di finalmente importante, ma perché trascrive questi sentimenti in immagini con una perizia affascinante. Che le scene d'azione s'iscrivano nella tradizione più alta del cinema americano del genere mi sembra evidente. Ancora più notevole è però la capacità di Cimino di iscrivere la sincerità, la violenza e la passione del suo discorso nel resto del film.

Nella struttura generale innanzitutto. Incredibilmente compatta, in equilibrio perfetto (sul fulcro di un'unità geografica che è rotta soltanto, e magistralmente, dal viaggio in Oriente di Tai) fra le trame contrapposte della polizia e dei banditi, fra gli scontri matrimoniali del protagonista e gli incontri della sua vita sentimentale. In questo montaggio perfettamente strutturato s'inseriscono i dialoghi che si caricano di una forza emotiva insolita, di un coefficiente di violenza, ma anche di emozione e di commozione, tale da risultare determinanti, al pari delle scene di azione, nel conferire al film la sua dinamica inesorabile.

Dal generale. che è architettato con una grandiosità operistica, al dettaglio, lo sguardo di Cimino si alterna con una duttilità mirabile con sentimenti che si fondono virtuosisticamente. come nella scena, ad esempio, di rottura matrimoniale che, improvvisamente, traduce in orrore la commozione. O in quella, inversa come procedimento, delle ragazze-killer travolte sull'asfalto lucido e osservate, finalmente e provvisoriamente, con un istante di pietà.

Nel quadro che il regista orchestra s'inserisce splendidamente, e rincresce citarlo alla fine, una serie d'interpretazioni perfette. Prime fra tutte quella di Mickey Rourke: tutta la passione del film è condensata nel temperamento del protagonista. Un temperamento, hanno ormai detto in diversi, che non si ricordava dai tempi del giovane Marlon Brando. Come per FRONTE DEL PORTO, ricordarsi di L'ANNO DEL DRAGONE significherà ormai ricordarsi di Mickey Rourke.


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