La domanda se la pongono in tanti. Se è vero che a partire da Tree of Life il cinema del più misterioso dei maestri moderni in circolazione si e' fatto più frequente, ma al tempo stesso involuto, una ragione potrebbe essere la seguente. Prima, le sue mitiche costruzioni partivano da un fatto reale, talvolta drammatico: il massacro dei marine in La sottile linea rossa, quello degli indigeni americani in Il nuovo mondo conduceva mirabilmente da un realismo che s'intuiva già onirico a un annientamento all'interno dell'ambiente, nella natura, e infine in una dimensione sempre più metafisica.
Ora accade il contrario: si parte dalle immagini astratte, "cosmiche" anche spettacolari ma in un rifiuto aprioristico della narrazione. Per risalire (ma sempre più laboriosamente) a un ipotetico soggetto che quella parcellazione dovrebbe produrre. Un messaggio, che il monologo filosofeggiante dovrebbe puntualizzare, così come le musiche, non sempre originali, dovrebbero affinare.
L'attesa sempre più impaziente che ciò avvenga grazie al genio che tutti conosciamo perdura a lungo; ma, più il tempo trascorre, più si fa arduo scoprire qualcosa dietro l'opera di un grande illustratore curiosamente demotivato. In uno spazio da Fashion Vogue attraversato da modelle sublimi, interni firmati e icone attoriali. Ma alla ricerca di cosa? Forse, di un felliniano Otto e mezzo, che questo Malik improvvisamente prolisso fatica però a ricalcare. Forse, in un desiderio, dopo aver indagato magistralmente nel passato, di riferirsi alla contemporaneità. Ma a quale ?