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I FRATELLI SISTERS
(THE SISTERS BROTHERS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 maggio 2019
 
di Jacques Audiard, con Joaquin Phoenix, John C. Reilly, Jake Gyllenhaal, Riz Ahmed, Rebecca Root (Francia - Stati Uniti, 2018)
 

I fratelli Sisters non è un western tradizionale, fra quelli che ogni tanto vengono riesumati in omaggio al mito di un genere che si ostina a non voler scomparire. Accade non a caso, forse perché diretto da uno dei cineasti più costanti e spesso a modo suo originale come Jacques Audiard. Figlio di Michel, il più grande fra gli sceneggiatori del cinema grand publique francese, autore di una quantità mostruosa di script e dialoghi. Alcuni idolatrati da milioni di spettatori, come Le Professionel o Un taxi pour Tobrouk, che confermavano l’immensa popolarità di Jean-Paul Belmondo o di Lino Ventura. Ma pure altri, La traversée de Paris di Autant-Lara o Garde a vous di Claude Miller, che aspiravano ad altre dimensioni.

In questo, il cinema del figlio non ha mai perso certe caratteristiche di quello del padre: la ricerca di una qualità costante nell’invenzione e l’originalità, ma sempre senza perdere di vista la presenza dello spettatore. Jacques riusciva cosi, già venticinque anni or sono, un poliziesco di quelli che per tradizione spettano agli americani. Ma Regarde les hommes tomber innovava, sfociava presto in un intrigo giallo nobile e disincantato; una dimensione disperata che conviveva con una addirittura burlesca. Quindi, nel 2001, il delizioso Sulle mie labbra: novella Cenerentola che si farà Bonnie & Clyde, la segretaria sorda, solitaria e intristita divinamene impersonata da Emmanuelle Devos deciderà di fare dell’apprendista in ditta, il furfantello Vincent Cassel, l’uomo cha fa al caso suo. La fine delle illusioni? Sarà in effetti il tema portante di Un profeta (2009), dove tematiche poco inedite come l’inferno carcerario, l’apprendistato alla malavita, l’esasperazione del marcio che filtra fra le mura dall'esterno, si appropriano di un altro briccone dalle esigenze di onnipotenza. Una interazione non facile, fra degli attori magnificamente coinvolti e un ambiente freddamente indagato.

Sembra essere ancora questa la chiave che ha condotto ora a I fratelli Sisters: traduzione italiana alquanto fasulla, poiché l’originale inglese parla di Sisters, e cioè di Sorelle. E’ la prima fra le molte tentazioni burlesche di un western dal quale non bisogna attendere la diligente riappropriazione di celebri miti. La vicenda dei due “fratelli-sorelle”, inserita all’interno di una ricerca ambientale sempre personale e mai banalmente evocativa, si sovrappone allora a quella di una coppia di killer che giunge dall’Oregon del 1851 per raggiungere la California della febbre dell’oro. Una coppia amorale, insensibile ma pure fragile quanto basta: subito affrontata dalla ferocia celata nel buio della sequenza iniziale. Verrà progressivamente spiegata, a partire da quella perversa del fratello maggiore, il solito immenso Joaquin Phoenix. Ma sarà il gentile, memorabile John C.Reilly a rappresentare la “sorella” destinata a  mutare assieme a tutto il film: la violenza in riflessione, la cupidigia in assurdità. A volte, addirittura in tenerezza e sentimentalismo, prima ancora che in comicità: come in quegli incontri fra i nostri due con i primi segni del secolo che si avvicina, le toelette con lo sciacquone nell’albergo di San Francisco, l’utilizzo dello spazzolino da denti.

Poiché è su queste contraddizioni che tutto si costruisce: fino al personaggio splendido e paradossale che dovrebbe costituire la preda di quella tragicomica rincorsa sulla traccia dell’avidità umana: Herman Warm, il chimico che avrebbe scoperto una mistura destinata a far risplendere, con la facilità di un gioco per i bimbi, tutto l’oro trattenuto fra i ciottoli dei ruscelli. Audiard sfida a quel modo la tentazione del racconto filosofico, per delle divertite dissertazioni che l’opera precedente del regista non avrebbe lasciato supporre. Si appoggia alla musica vagamente jazzy di Alexandre Desplat, alle risonanze scorsesiane apportate da una costumista come Milena Canonero . Sul filo di una traduzione del romanzo del canadese Patrick deWitt dal quale il film è tratto, si allontana così felicemente dalle altre derivazioni del genere, care al western spaghetti come a quello dalle inflessioni post-moderne.

 


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