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FRANTZ Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 ottobre 2016
 
di François Ozon, con Paula Beer, Pierre Niney, Ernst Stötzner, Marie Gruber, Johann von Bülow (Francia - Germania, 2016)
 

Basta talvolta la prima immagine di un film per farcelo ricordare per sempre. Quello di Frantz preannuncia già il tutto: Quedlinburg, 1919, uno sfondo in bianco e nero percorso da un ramo sfuocato ma chiazzato dal colore. Significa Germania, l’indomani di una Guerra sanguinosa, il melodramma d’epoca, l’intrusione delle sfumature cromatiche quando vengono indotte dal Sogno. O dalla menzogna, se preferite, quand’è a fine di bene.

L’ultimo film di François Ozon (per alcuni il suo capolavoro) s’ispira a una pellicola muta di Ernst Lubitsch, Broken Lullaby (1932); adattata a sua volta da una pièce teatrale pacifista di Maurice Rostand. In una borgata ancora immersa nell’umiliazione della sconfitta, la giovane Anna vive con i genitori del fidanzato Frantz, ucciso al fronte. Un giorno, Anna vede raccogliersi sulla sua tomba uno sconosciuto; per di più francese, e scosso fino alle lacrime, Adrien, questo il suo nome, racconterà di aver conosciuto Frantz a Parigi prima del conflitto. Ma si tratta della verità o di bugie di comodo? Di sfumature, anche dolorose, ma dettate dall’ambiguità di motivazioni più intime? E in quanto alle spiegazioni che Anna inventerà agli inconsolabili genitori inconsolabili di Frantz: sono solo pietosi sotterfugi per alleviare il loro strazio, oltre che il proprio? O, piuttosto: atti di fede nell’Illusione? La stessa che era già alla base di quel cinema muto al quale il film di Ozon (almeno inizialmente) aderisce in modo cosi fedele?

Quasi clamorosamente, da quel cinema, da quelle illusioni il film se ne allontanerà, nella sua seconda parte. Ancora solcata da squarci cromatici, sempre rispettosa dei modi cari ai capolavori del melodramma alla Douglas Sirk. Ma nelle mani di un regista moderno come il francese, sedotto fin dai tempi di Sotto la sabbia (2000) dalla dimensione metafisica,.Che qui capovolge la vicenda e la sua prospettiva.

Sarà allora lei (Paula Beer, luminosa rivelazione) a passare dalla Germania alla Francia alla ricerca di lui. Quasi l’inizio di un altro film. Sganciato dal classicismo della prima parte (splendido, di una rigorosa semplicità, lontana da ogni manierismo e pedanteria esplicativa). Qualcosa di imprevisto, ormai definitivamente inventato e romanzesco. Ma stavolta nell’ottica, pudica ma sempre più fantasmatica di Anna.

Condotto dalla meravigliosa trasparenza degli sguardi di una novella Romy Schneider lo spettatore ne seguirà, sempre più cosciente, le esaltazioni, le manipolazioni e le inevitabili delusioni.  Mentre dal canto suo il film, in un progressivo e affascinante gioco di specchi tra i due nazionalismi, affinerà non solo la propria indagine psicologica, ma la sua energia pacifista. Sempre più distante da tentazioni letterarie; sempre più vicino alle urgenze umanistiche e politiche del nostro presente.

 


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