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QUANDO ERO CLOCLO Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 ottobre 2017
 
di Stefano Knuchel, con S. K., Nives Knuchel Vacchini, Peter Knuchel, Stefano Knuchel, Antonella Knuchel, Francesco Knuchel, Fabio Knuchel, Roberto Knuchel, Fausto Vacchini (Svizzera, 2017)
 

"La vita consiste nel risolvere un ricordo". Non è facile, nemmeno in cinema; ma ci riesce Stefano Knuchel, al suo terzo lungometraggio, dopo Nocaut (2004) e Hugo en Afrique, presentato alla Mostra di Venezia nel 2009. Dopo, soprattutto, mezzo secolo di una vita per niente banale. A partire da Locarno durante i creativi e turbolenti Anni Sessanta, una crescita nomade per l’Europa con un’intera famiglia in continua migrazione. Al seguito di un padre fantasioso imprenditore, costretto a fughe notturne non appena sulle sue iniziative girasse il vento, fino alle conseguenze più estreme. Senza mai frequentare le scuole dell’obbligo, ma studiando musica, recitazione e ballo; e diplomandosi infine, nel 1987 al Conservatorio di Friburgo, con uno dei grandi del jazz europeo, l’arrangiatore Francy Boland. Seguirà allora, dal 1988, la sua presenza quale autore e conduttore di programmi sperimentali presso la Televisione Svizzera; il che non gli impedirà di continuare a comporre musica per il teatro, sigle televisive e brani pop e jazz.

Ora, il titolo del film, Quando ero Cloco, richiama la devozione del protagonista e di sua madre per Claude François. Un’identificazione che lo spinse da sempre ad imitarlo, addirittura a reincarnarlo in esibizioni pubbliche. Fino ad inserire ora nella pellicola, all’interno della dirompente colonna sonora di composizioni firmate Knuchel, un brano che lo spettatore distratto considererà composto ed interpretato dallo scomparso cantante francese.

Ma il film, lo avrete compreso dalle premesse, è lungi dall’accontentarsi di questo genere di omaggio simpatico. A somiglianza dell’esistenza del proprio autore, accumula piuttosto una profusione di esperienze ed emozioni: per ricavarne un’impressione di estrema libertà espressiva che non abbandona mai lo spettatore. Certo, ad imitazione della vicenda narrata, il rischio è quello del troppo pieno, della ripetitività e dell’amplificazione: ma la felicità e la fluidità dell’abbandono creativo finiscono sempre per avere la meglio.

L’artista è sensibile e fragile, mentre gli accadimenti esistenziali narrati sono costantemente ai confini di una fiaba gargantuesca? Poco importa. "Ci si costruisce molto di più sulla fragilità che con la forza": e Knuchel non lo dice soltanto a parole. Tra la scomparsa del padre e la sua tardiva ricomparsa si concede totalmente, invitando a perdersi nel suo film: "era essenziale per me mettermi a nudo, essere me stesso fino in fondo, strutturare il film così com’è strutturato il mio carattere, da truffatore della realtà".

Quando ero Cloclo è un film libero e ardito. Ad esatta somiglianza delle vicissitudini narrate, dei contrasti affrontati a viso aperto con le loro tragicomiche contraddizioni, rappresenta una sfida ammirevole all’interno di un cinema come quello della Svizzera Italiana. Talvolta valido, ma spesso come timoroso di esporsi oltre il lecito rassicurante. Avere intuito l’energia dirompente e l’originalità poetica che si nascondono dietro quelle che Knuchel definisce fughe dalla realtà è anche merito di chi, come la produttrice Silvana Bezzola, ha creduto in un progetto dalla non evidente unicità.

Un progetto che, come dice l’autore: "voleva essere soprattutto un gesto verso il pubblico. Un gesto artistico non è per forza una cosa fantastica o geniale. La sua natura sta innanzi tutto nella capacità di sacrificarsi per gli altri. Mi sembra che oggi la gente si metta sempre di più "a nudo" sui social, esponendo la propria vita. Però non osa analizzarla, non osa metterne in evidenza i punti deboli e critici, anzi, fa di tutto per nasconderli".


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