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QUELL'OSCURO OGGETTO DEL DESIDERIO
(CET OBSCUR OBJET DU DESIR)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 gennaio 1979
 
di Luis Buñuel, con Fernando Rey, Carole Bouquet, Angela Molina, Julien Bertheau, André Weber, Milena Vukotic (Francia, 1977)
 

La protagonista dell'ultimo film di Luis Bunuel si chiama Conchita. Che è il diminutivo di Concession: già nella scelta di questo dettaglio si rivelano le intenzioni di colui che molti ritengono il più grande dei cineasti viventi. Perché se c'è qualcuno poco disposta a concedere qualcosa, questa è proprio Conchita.

I film di questo erede del surrealismo sono aperti, è da tempo che lo si sa, a mille interpretazioni. Sono come quelle bombe con i cotillon che si facevano scoppiare una volta: ripiene di sorprese fasulle che nascevano dall'incanto di un'esplosione. Ma il primo significato di Quell'oscuro oggetto del desiderio è proprio ciò che dice il titolo: l'ossessione della verginità, la verginità intesa come proprietà privata. Non è la prima volta che il romanzo di Pierre Louys viene portato sullo schermo. Prima di Bunuel vi fu già un capolavoro (The devil is a woman, girato nel 1935 dal grande Joseph von Sternberg con Marlene Dietrich) ed il mediocre La femme et le pantin, dal titolo originale del romanzo, che Duvivier fece interpretare a Brigitte Bardot. Con una differenza: il tema delle opere precedenti era quello della donna fatale. Del cinquantenne che si fa irretire dalla seduttrice. Il tema, sul filo della misoginia, dell'«eternel féminin».

Bufiuel, lo conosciamo, i temi, i valori li prende soltanto per rovesciarli. Per piegarli ai propri desideri di fustigatore dei vizi della società. Se Fernando Rey fa pensare subito ai protagonisti maturi di Viridiana e Tristana, la scelta della donna contraddice la tesi della donna fatale. Un caso (ma fino a che punto fortuito: come Bunuel fa dire ad uno dei protagonisti, la psicanalisi esclude, a livello dell'inconscio, il concetto di caso...) priva Bunuel della sua attrice, Maria Schneider, con la quale litiga dopo pochi giorni. Al posto della Schneider, Bunuel ne ingaggia...due. Il demonio dal viso di madonna, Carole Bouquet, e la versione decisamente puttanesca, Angela Molina.

Nel film vedremo lo stesso personaggio interpretato da due donne diverse. L'arte di Bunuel, quella che gli permette di utilizzare la fascinazione cinematografica per raggiungere il magico ed il fantastico, sono così grandi che lo spettatore ignaro forse nemmeno si accorge della cosa. Eppure, le due attrici sono assai dissimili. E Bunuel non si cura di mimetizzarle con lo stesso abito: al contrario, le alterna in primo piano, quasi con ostentazione. Sulle due facce della protagonista di questo film discuteranno a lungo, in futuro, i teorici del cinema. Perché dimostra come il personaggio cinematografico s'impone allo spettatore per il suo rapporto con la vicenda, con l'ambiente, co ngli altri elementi espressivi dell'opera. E non per il suo aspetto fisico esteriore, puramente fotografico. Lo spettatore lo accetta esclusivamente per la sua funzione all'interno dell'opera.

Con due donne concupite, con i tradizionali oggetti magici che Bunuel inserisce nel racconto (scatole misteriose, trappole che scattano sul topo quando meno uno se lo aspetta, mosche che cadono nel bicchiere), con l'humour corrosivo, inimitabile, che s'inserisce fra le pieghe del racconto, con la volontà costante di non voler iniziare o terminare il medesimo, con l'accenno ad una rivoluzione sempre meno larvata, da parte di una organizzazione chiamata «Gruppo rivoluzionario del Bambino Gesù», il film si allontana sempre di più da quello che credevamo che fosse. La storia, si diceva, di un cinquantenne che perde la testa per una allumeuse. Diventa, invece, quello dell'eterno fascino bunueliano. La realtà che si contraddice: e con essa le regole che noi crediamo avere fissato. Quelle morali, sociali, religiose. E anche quelle freudiane. O i simboli, inseguiti per anni da una critica intestardita, quando Bunuel aveva deciso di abbandonare Dalì e gli altri suoi amici surrealisti, proprio perché contrario ad una classificazione, ad una metodologia del simbolo.

L'arte del grande spagnolo consiste allora nel trasformare in critica, peggio ancora in derisione, l'irrazionale. Dapprima Bunuel spezza le regole della realtà cinematografica pe riproiettarci nel fantastico. Ma,non contento di questa operazione(che già gli permette di raggiungere il mondo splendido della poesia) utilizza ancora questa dimensione irreale per farne della critica sociale, politica, esistenziale. Raccontare un film di Bunuel significa incamminarsi in una interpretazione della realtà che è contraria alle intenzioni dell'autore. Il personaggio mitico che fu della Dietrich ci viene mostrato qui, all'inizio, mentre avanza sul marciapiede di una stazione con un occhio pesto ed un cerotto in fronte. Pronto a ricevere un secchio d'acqua lanciatogli dal suo borghese cinquantenne.

E il finale? Una Penelope che ricama, un abito da sposa macchiato di sangue. Ma, si rassicurino gli amanti dell'happy end, le cose non stanno così: vedremo immediatamente dopo la coppia allontanarsi litigando. Conchita non ha concesso un bel niente, e la storia continua. Un film di Bunuel è qualcosa di più di un processo di smitizzazione di regole borghesi, o di una critica dei vari dogmi che ci governano. E' l'arte di trasformare le immagini, di mostrarci la relatività del concetto di verità, la fragilità delle apparenze. Un universo delizioso, nel quale sovversione, critica e ironia si uniscono e sciolgono continuamente in un balletto inimitabile.


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