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IL CACCIATORE
(THE DEER HUNTER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 aprile 1979
 
di Michael Cimino, con Christopher Walken, Robert de Niro, John Savage, Meryl Streep, John Cazale (Stati Uniti, 1978)
 

IL CACCIATORE è il film più chiacchierato del 1978. Al Festival di Berlino ha provocato l'indignazione ed il ritiro delle rappresentanze comuniste ed è stato accusato di essere un film reazionario ed una apologia della violenza. E' stato contrapposto all'altro film sul Vietnam, TORNANDO A CASA: quello, si è detto, si giocava sulle idee. Questo, IL CACCIATORE, sull'impatto materiale, fisico.

L'industria americana lo ha però subito definito film dell'anno, primo film americano sul Vietnam. E ricompensato col tradizionale pugno di Oscar: forse anche per questo, IL CACCIATORE è anche un film contraddittorio. Ma in queste contraddizioni si cela l'immenso talento di un cineasta; anche se è difficile considerarlo un pacifista. Cosi come è assurdo chiamarlo fascista: poiché THE DEER HUNTER è indubbiamente un film che si interroga sulla degenerazione dell'uso delle armi e della guerra. Non per farne un film sul Vietnam, anche se utilizza la violenza per far spettacolo. Ma facendolo in misura sicuramente non maggiore di quella di certi western all'italiana, o di certe opere di Sam Peckinpah.

Alcune cose sono di “troppo” ne IL CACCIATORE? A cominciare dalla sua durata, oltre tre ore, che ne definisce, e condiziona il genere. Tutto è spiegato, descritto, reso spettacolare, come sottolinea qualcuno? Ma non di certo le psicologie: che, affidate a un assieme straordinario di attori, sono lasciate in quella fascia di preziosissimo mistero, a creare la magia, vuoi la poesia o l'arte.

Quando il reduce torna a casa non è che il regista ci spieghi ciò che non è poi difficile comprendere, e cioè che tutti sono cambiati, dopo l'orrore. No, il film ci mostra l'auto che arriva davanti a casa, la porta che si apre, i bagagli ritirati dal baule, il dito sul campanello, il sobbalzo di lei, l'abbraccio con le lacrime. E non è che dopo cinque minuti si arrivi al dunque, al fatto che le cose non stanno come dovrebbero. Prima di arrivare al Vietnam, Cimìno impiega più di un'ora. Ed è chiara la sua intenzione: farci conoscere intimamente i personaggi. Ci mostra di conseguenza l'ambiente della cittadina industriale della Pennsylvania meravigliosamente ricreato, una delle cose più straordinarie del film. Poi, eccoci metaforicamente a una immensa caccia al daino: dove si comprende quanto Robert de Niro sia il capo, colui che uccide, ma solo lealmente, con un colpo solo. E che è in lui che s'identifica l'autore. Quindi, Cimino volta pagina e ci mostra con un brio ineguaglliabile il lunghissimo matrimonio alla russa di uno dei tre amici. Incombe ormai la loro partenza per la guerra: quando si affronteranno ben altre sensazioni, la violenza insostenibile della «roulette russa» imposta ai prigionieri, la follia che s'instaura nelle menti, prima del ritorno in patria. Il tono, allora, ne risulterà ben altrimenti condizionato.

IL CACCIATORE, questo è fuori dubbio, ci rivela un cineasta dal talento sopra le righe: certi aspetti registici, soprattutto quell'uso indimenticabile dell'ambiente, dello sfondo, la provincia, la montagna, la giungla vietnamita, la Saigon dell'esodo, non sono mai dei banali pretesti: significano in modo sublime la vicenda, ed i personaggi. Cimino è poi formidabile in alcune sequenze dinamiche: la fuga al termine della roulette russa, il passaggio fortissimo, dalla festa al dramma, del villaggio vietnamita, le operazioni degli elicotteri, tutto di un realismo efficacissimo. Ridotto nelle proporzioni (ma piuttosto nelle intenzioni?) il film poteva sfociare in una riflessione matura, ma allora non inedita sulle armi, la violenza, la guerra. E sul ruolo che ha in tutto ciò il denaro, il profitto.

Ma siamo certi che questo fosse nelle intenzioni di un autore che si serve del realismo più eclatante per trovare una sorta di rifugio nel metafisico? Una delle cose più belle del film è senza dubbio l'idea di partenza. Aver ricondotto il dramma eterno ed universale della guerra, ma al quale noi siamo ormai abituati, psicologicamente e fisicamente narcotizzati: sostituendolo con il gioco della violenza gratuita, puramente lasciata al caso, della roulette russa. La vita, la morte, svilite dapprima nel ruolo dell'azzardo. In seguito, al servizio del profitto.

Tutto questo l'autore lo dice con straordinaria generosità, con abilità, ma anche con l'insofferenza per la progressione drammatica, la spiegazione. Cosi, quella che per alcuni rappresenta l'ambiguità del risultato finale, dipende in parte proprio da quel rimescolare le carte. Se il discorso non è chiaro, se alla fine, quando i superstiti si ritrovano a cantare «God bless America», non risulta esplicitamente da che parte si situi l'autore, se addirittura a taluni dia l'impressione di giustificare il tutto (servendosi pure del sangue) ciô è intrinseco nella natura dell'approccio di Cimino.

Nato come riflessione sulla guerra, il film parrebbe allora farsi elogio dell'Eroe, della giustificazione storica del ruolo eterno dell'America nella sua eterna difesa di sempre Nuove Frontiere. L'ambiguità straordinaria de IL CACCIATORE sta invece nell'aver voluto, allo stesso tempo, far opera di riflessione ma pure dì magia. Che è poi quanto resterà per sempre nelle memorie degli spettatori.


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