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Inizia come un film di De Sica, per finire a riflettere come ama Roberto Saviano, quest'opera prima, sorprendente e ammirevole nel quadro attuale del cinema italiano, premiata con l'ambito riconoscimento della Fipresci alla Mostra di Venezia, coprodotta dalle nostre RSI e Amka Film che vanno felicitate per la loro intuizione.

Una certa eredità del neorealismo. Per un'adesione diretta e semplice alla realtà, che finisce per sconfinare progressivamente nella poesia. E perché l'adolescente gira come il padre per le strade con il carretto delle granite: prima di essere rinchiuso in un enorme edificio in disuso nella periferia di Napoli, obbligato dalla camorra locale a sorvegliare Veronica, una coetanea, colpevole di uno sgarbo che tarderemo a conoscere.

Il carceriere e la vittima, secondo uno schema ben collaudato dal cinema? Si e no. Complice la splendida sottilità indotta dalla fotografia di Luca Bigazzi, sulla traccia di una sceneggiatura assai meno statica di quanto appaia a prima vista, Leonardo Di Costanzo (un passato di documentarista) si avvicina alla situazione con un estremo pudore (che non ne esclude l'erotismo soggiacente), una leggerezza di tocco che si fonda sul respiro sempre più largo degli ambienti, il significato sempre più presente dei silenzi che finisce per esaltare quello delle parole. Si fanno così sempre più evidenti i significati dell'eterna, drammatica situazione sociale e politica; ma, al tempo stesso, di una sorta di antidoto fantastico e commovente inventato dai due adolescenti, mentre s'inoltrano nei misteri dell'ambiente, della natura abbandonata che irrompe nell'abitazione, dell'interpretazione del canto degli uccelli prediletto dal giovane protagonista. Quasi che al cinema riuscisse l'illusione della vittoria sulla violenza.

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