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Ossessionato dal sesso, ma non ci siamo. Certo, Michael Fassbender (che già interpretava un altro indimenticabile personaggio, nel primo, sconvolgente HUNGER del regista ed ex videoartista britannico di colore Steve McQueen) è inizialmente una sorta di yuppie di successo; splendido, brillante, tutte le donne gli appartengono. Ad immagine del film, non ci pensa nemmeno un attimo a tirarsi indietro. Pure in solitario, pare non averne mai abbastanza. Immerso com'è in una New York contenitore terribilmente eccitante quanto spaventosamente alienante,

Michael non è però un affamato, ma un insoddisfatto. E forse come mai al cinema, l'insoddisfazione di un atto, quando è costretto ad essere soltanto fisico, è stata mostrata con tanta disperazione. Sotto il glamour assoluto, la solitudine: situato com'è agli antipodi del compiacimento spettacolare, il sesso integrale di SHAME, appena un istante patinato e subito alienato nel panorama mozzafiato sull'Hudson che gli fa da cornice, significa con splendida coerenza la continuità di un'altra nudità. Di tutt'altra ma altrettanta tragicità, quella del militante dell'IRA Bobby Sands, che nel precedente HUNGER egualmente smaterializzava fino alla morte il proprio corpo (reso con una fisicità cronenberghiana, che evidentemente rappresenta una delle grandi armi espressive del cineasta), in uno sciopero della fame condotto nell'estrema violenza delle carceri nord irlandesi.

Isolato, senza passato, senza futuro, lo straordinario personaggio creato da Michael Fassbender galleggia con un'eternità di significati che gli viene proprio dal situarsi fuori dal tempo. Fuori dallo spazio squisito, fatto di suoni e di un commento musicale di straordinaria adeguatezza, di luci e dominanze cromatiche glaciali, di tagli d'immagine costantemente creativi permessi da una maestria formale che si sta imponendo all'attenzione non più soltanto museale. Privo di un passato come di un futuro, Brandon è forse emblematico nella nostra epoca; per lui lo scambio sessuale nasce indifferentemente dall'incontro casuale o retribuito, dall'uso della prostituzione in linea su Internet piuttosto che dalla pausa nel retrobottega professionale.

Un seguito di situazioni, più di una vera e propria progressione drammatica, che McQueen inserisce nella presenza prepotente degli ambienti giocando in particolare sulla durata delle sequenze. Dilatate fino all'esasperazione (dei tempi, e di conseguenza dei sentimenti) di situazioni apparentemente normali, in effetti sconvolgenti, anche per la resa straordinaria che ne consegue degli attori: da quella straziante dell'indimentivabile fragilità di Carey Mulligan (appena ammirata in DRIVE), la sorella che canta un "New York, New York" di allucinante lentezza che provocherà la prima presa di coscienza del protagonista, all’altrettanto prolungato scambio di occhiate in una seduzione nel metrò come non ne avete mai viste. O ancora, più divertita e disincantata, quasi miracolosamente improvvisata, una cena al ristorante, finalizzata dall’inevitabile anche se in quel caso sorprendente conclusione, che permette l’altra bellissima scoperta dell'attrice Nicole Beharie.

Dipendenza sessuale? Quella proposto dall'eleganza splendida dell'animale Fassbender è piuttosto uno spaccato epocale: l'itinerario sempre più sofferto che conduce il seduttore (personaggio fondamentale alla riuscita nella società contemporanea) dalla libertà assoluta alla dipendenza incontrollabile, dai privilegi degli ambienti design alla corsa ormai non piu liberatoria fra le luci trafficate di Manhattan, alle lacrime sui marciapiedi bagnati dalla pioggia ormai sporca. All'impotenza di una infine lucida vergogna, umiliante (e non di certo moralista) che da il titolo al film.

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(Review date: 29 February 2012)

Obsessed with sex, but not quite there. Sure, Michael Fassbender (who already played another unforgettable character, in the first, shocking HUNGER by director and former black British video artist Steve McQueen) is initially a sort of successful yuppie; gorgeous, brilliant, all women belong to him. In the image of the film, he doesn't think for a moment about backing out. Even on his own, he can't seem to get enough. Immersed as he is in a New York container as terribly exciting as it is frighteningly alienating,

Michael is not a hungry man, however, but a dissatisfied one. And perhaps as never before in cinema, the dissatisfaction of an act, when forced to be merely physical, has been shown with such desperation. Underneath the absolute glamour, the solitude: situated as it is at the antipodes of spectacular complacency, SHAME's full sex, just a moment glossy and immediately alienated in the breathtaking view over the Hudson that frames it, signifies with splendid coherence the continuity of another nudity. A completely different but equally tragic one, that of the IRA militant Bobby Sands, who in the previous HUNGER also dematerialised his body to the point of death (rendered with a Cronenbergian physicality, which evidently represents one of the filmmaker's great expressive weapons), in a hunger strike conducted in the extreme violence of Northern Irish prisons.

Isolated, without past or future, the extraordinary character created by Michael Fassbender floats with an eternity of meaning that comes from being outside of time. Outside the exquisite space, made up of sounds and an extraordinarily adequate musical commentary, glacial lights and chromatic dominances, constantly creative image cuts permitted by a formal mastery that is imposing itself on the attention of more than just museums. Devoid of a past as well as a future, Brandon is perhaps emblematic in our time; for him, sexual exchange arises indifferently from casual or paid encounters, from the use of online prostitution on the Internet rather than a break in the professional backroom.

A succession of situations, more than a real dramatic progression, that McQueen inserts in the overbearing presence of the environments playing in particular on the duration of the sequences. Delayed to the point of exasperation (of the times, and consequently of the feelings) of apparently normal situations, which are in fact shocking, also because of the extraordinary performance of the actors: from the heartbreaking one of the unforgettable fragility of Carey Mulligan (just admired in DRIVE), the sister who sings a "New York, New York" of hallucinating slowness that will provoke the first awareness of the protagonist, to the equally prolonged exchange of glances in a seduction in the underground as you have never seen before. Or again, more amused and disenchanted, almost miraculously improvised, a dinner at a restaurant, finalized by the inevitable though in that case surprising conclusion, which allows the other beautiful discovery of the actress Nicole Beharie.

Sexual addiction? The one proposed by the splendid elegance of the animal Fassbender is rather an epochal cross-section: the increasingly suffered itinerary that leads the seducer (a fundamental character for success in contemporary society) from absolute freedom to uncontrollable dependence, from the privileges of designer environments to the now no longer liberating race through the busy lights of Manhattan, to tears on the pavements wet by the now dirty rain. To the impotence of a finally lucid, humiliating (and certainly not moralistic) shame that gives the film its title.

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