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LA SCOMPARSA DEL REGISTA SUD COREANO KIM KI-DUK IN 3 DEI SUOI 24 FILM :

Fare cinema significa, prima di ogni altra cosa, impossessarsi di uno spazio. Non fosse che quello delimitato dai margini dell' inquadratura; quindi, ovviamente, quello di una successione di sguardi, significati da un montaggio. Fino ad abbracciare la vita, il mondo che ci circonda. Esattamente a questo modo funziona il protagonista del curioso, a prima vista sconcertante, infine straordinario FERRO 3 (che sarebbe poi il numero della mazza da golf che il giovane protagonista si porta appresso): Tae-Suk si impossessa delle abitazioni che trova inabitate non per rubare o violentare. Ma per condividere l'esistenza, l'identità degli spazi visitati; e di chi ci abita. Gira in moto, appiccica volantini alle porte e, se le ritrova al loro posto entra nelle case, si sistema, riassetta, ripara; scompare, se gli occupanti rientrano all'improvviso.

FERRO 3 è un film altrettanto lunare del proprio protagonista e di quelle situazioni. Sarebbe inafferrabile e astruso; se diventa poeticamente splendido e limpido è grazie alla scrittura del suo regista. Ed a tutta una cultura, una filosofia, un comportamento che sottintende quello sguardo. Segretamente ma squisitamente significativo, nei simboli, nell'allusione formidabile del gesto: che con infinita leggerezza, ma decuplicata energia ci fa più che intuire, comprendere quanto dell'intimo più conta.

E' presto evacuato il sospetto del bello, del compiacimento nei confronti delle proprie intuizioni formali (come si era fatto, e a torto, a proposito del precedente PRIMAVERA, ESTATE, AUTUNNO, INVERNO E... PRIMAVERA): perché subito sì rientra nella logica e nella grazia di una cultura priva dei freni del moralismo; dove il ritegno, il vuoto, il silenzio ei significati che ne derivano valgono infinitamente più di ogni spiegazione. Sensualità, comicità, tenerezza, violenza, paura, commozione nascono allora da quella semplicità rarefatta; erotismo nel gesto appena sfiorato che invita a raggiungerla fra le lenzuola. Un cinema nel quale ci si sorprendere a spiare la piega minima di un sorriso, di un impercettibile mutamento di fisionomia che spalanca, tra il serio ed il faceto, immediati ed immensi paesaggi.

Con Tae-Suk fra le sbarre (zen o meno, tutto il mondo è paese), il film scivola con fluidità ammirevole dalla realtà del gesto, dalla banalità e dalla violenza mediocre del quotidiano all'evasione straordinaria nel surreale e nel fantastico. L'illusione, più forte della materia, annullerà in un balletto comico, allusivo e poetico le mura della prigione degli uomini, quell'ultimo dei contenitori visitati dal protagonista.

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THE DISAPPEARANCE OF SOUTH KOREAN DIRECTOR KIM KI-DUK IN 3 OF HIS 24 FILMS :

* * * *   3-IRON (BIN JIP), by di Kim Ki-duk, con Lee Seoung-Yeon, Jae Hee (South Korea 2004)

Making cinema means, before anything else, taking possession of a space. Even if it is only the space delimited by the edges of the frame; then, obviously, the space of a succession of gazes, signified by a montage. Until it embraces life, the world around us. This is exactly how the protagonist of the curious, at first sight disconcerting, finally extraordinary IRON 3 (which is the number of the golf club the young protagonist carries around) works: Tae-Suk takes possession of the houses he finds uninhabited, not to steal or rape. Tae-Suk takes possession of the houses he finds uninhabited, not to steal or rape, but to share the existence, the identity of the spaces he visits, and of those who live there. He rides around on his motorbike, sticks leaflets on the doors and, if they are found in place, he enters the houses, settles in, tidies up, repairs; he disappears, if the occupants suddenly return.

IRON 3 is a film just as moonlike as its protagonist and those situations. It would be elusive and abstruse; if it becomes poetically splendid and clear, it is thanks to the writing of its director. And to a whole culture, a philosophy, an attitude that underlies that gaze. Secretly but exquisitely significant, in the symbols, in the formidable allusion of the gesture: which with infinite lightness, but tenfold energy makes us more than intuit, understand what is most important in the intimate.

The suspicion of beauty, of complacency with regard to one's own formal intuitions is quickly dispelled (as was done, and wrongly, with regard to the previous SPRING, SUMMER, AUTUMN, WINTER AND... SPRING): because it immediately re-enters the logic and grace of a culture without the brakes of moralism; where restraint, emptiness, silence and the meanings that derive from them are worth infinitely more than any explanation. Sensuality, comedy, tenderness, violence, fear and emotion are born from that rarefied simplicity; eroticism in the barely touched gesture that invites you to join it between the sheets. A cinema in which one is surprised to spy the slightest turn of a smile, of an imperceptible change of physiognomy that opens up, between the serious and the facetious, immediate and immense landscapes.

With Tae-Suk behind bars (Zen or not, all the world's a country), the film glides with admirable fluidity from the reality of the gesture, from the banality and mediocre violence of everyday life to the extraordinary escape into the surreal and the fantastic. Illusion, stronger than matter, will cancel in a comic, allusive and poetic ballet the walls of the prison of men, that last of the containers visited by the protagonist.

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