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IL CAVALLO DI TORINO
(A TORINOI IO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 24 giugno 2012
 
di Bela Tarr, con Volker Spengler, Erika Bok, János Derzsi, Mihály Kormos (Ungheria, 2011)
 
E' buona cosa premetterlo, il film di Bela Tarr costituisce un caso limite: da anni il suo è l'approccio al cinema più radicale in circolazione. Anche se THE TURIN HORSE (Orso d'Argento alla Berlinale 2011) sembra dipartirsi da un aneddoto semplice, curioso, del tutto “normale”: la storia del cavallo che, il 3 gennaio 1889 a Torino, Friedrich Nietzsche vede frustato dal suo cocchiere poiché si rifiuta di avanzare. Pare che il grande filosofo si attaccò al collo dell'animale, abbracciandolo; prima di abbandonarsi al pianto e, a partire dalla sera stessa, di scivolare in una lenta follia.

“ Di quanto successe al cavallo, nulla sappiamo”: così, il film racconta l'episodio a schermo oscurato, e soltanto a partire dalle immagini seguenti il regista ungherese inizia ad organizzare la propria visione, in quell'esigenza estetica e morale che solo gli appartiene, ipnotica, certamente straniante, pure esasperante per chi le si avvicina per la prima volta.

Sarà allora, in qualche modo, la vicenda vista dal cavallo: subito, da quei dieci minuti iniziali, subito impressionanti, con l'occhio della cinepresa che s'incolla letteralmente alla sforzo immane dell'animale, allo sfinimento del cocchiere, allo sfondo di un paesaggio ischeletrito dalla nebbia, reso ancora più lancinante dall'eco ripetitiva di un tema che verrà periodicamente riproposto. Primo rovesciamento di una prospettiva di lucidità umano/animale sulla quale rifletterà il film, è il vecchio che vediamo trascinare il cavallo nella stalla dalla quale non riuscirà più ad estrarsi. Nella capanna accanto, perduta in una landa polverosa e percorsa da una tempesta incessante, seguiremo per sei giorni il padre e la figlia, praticamente muti, mentre ripetono i gesti di una sopravvivenza che indoviniamo terminale: alzarsi, accendere il lume, vestirsi, cercare l'acqua al pozzo, lavare i panni, cuocersi una patata a testa, consumarla con un pizzico di sale e un sorso d'acquavite, dopo averle strappato la pelle con le unghie. Rituale solo apparentemente immutabile, poiché molti dei segreti del film sono nascosti nei mutamenti impercettibili che intervengono a stimolare la nostra curiosità: fino a quando, improvvisamente, svanirà anche l'acqua del pozzo.

Nulla di più: nel frastuono esasperante del vento, nel buio della notte dal quale ora è scomparso ora anche l'eco dei vermi che si udivano consumare le travi. E nulla di più nel rigore indicibile dello stile di Bela Tarr, mai naturalistico, implacabile nella scelta degli spazi, mai gelido poiché animato dalla vibrazione di una luce che si ricorda di Rembrandt come di Ingmar Bergman. Il regista parla di una Genesi all'inverso, di una involuzione filosofica ed estetica che, dalla luce e dal frastuono della natura conduce progressivamente all'oscurità ed al silenzio. E' un cammino di un'intransigenza che vive della stessa follia nella quale era caduto il filosofo dell'aneddoto iniziale. Impegnativo, anche per lo spettatore; quasi sorprendentemente, mai interminabile. Poiché di ogni dettaglio che interviene a modificare l'inesorabile consunzione quotidiana, di ogni anelito di vita residuo che auspichiamo ancora ritrovare in quella rassegnata fuga in avanti ci scopriamo, quasi inconsciamente, partecipi.


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