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IL FIGLIO DI SAUL
(SAUL FIA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 30 novembre 2015
 
di Lazlo Nemes, con Géza Röhrig, Levente Molnar, Urs Rechn (Ungheria, 2015)
 

Protagonista sensazionale all'ultimo festival di Cannes, IL FIGLIO DI SAUL è uno dei film più necessari e originali dell'anno. Al suo primo lungometraggio, l'ungherese Laszlo Nemes non solo si assume i rischi della difficilissima e spesso contestata rappresentazione in fiction dell'orrore, ritenuto infilmabile, della Soluzione Finale. Ma riesce incredibilmente a innovare all'interno di quel cerchio delicato che ha romanzato il genocidio (LA LISTA DI SCHINDLER di Spielberg, KAPO, di Pontecorvo o LA VITA E' BELLA di Benigni), esaltandolo con una scelta di linguaggio per molti aspetti straordinaria. Nessuno, fra tutti coloro che sono consapevoli del compito irrinunciabile di conservare le Memorie dai campi di sterminio, aveva finora ri-costruita la Shoah in questo modo. Ebreo ungherese, Saul appartiene al Sonderkommando di Auschwitz, il gruppo di prigionieri costretti a collaborare con i nazisti al funzionamento dell'indicibile operazione di sterminio, prima di essere a loro volta eliminati. Per sopravvivere, a Saul non rimane che non vedere, non udire, non percepire. Fino al giorno in cui in un bambino scoprirà ancora un respiro: lo prenderà per suo figlio, per salvarlo non fosse che dalle fiamme, grazie a una sepoltura decente. Come ogni rappresentazione del male assoluto, IL FIGLIO DI SAUL richiede allo spettatore lo sforzo di rinunciare per un attimo al proprio confortevole quotidiano. Ma proprio la prima riuscita del film consiste nel sollecitare la consapevolezza dello spettatore: mai la sua paura, forse nemmeno il suo fastidio. Riuscendo miracolosamente un film al tempo stesso etico ed estetico, morale e documentato, Nemes non ricorre mai alle sollecitazioni formali, alla brutalità dello spettacolo; ma a quelle assai più sensoriali della coscienza. Pur all'interno di un contesto storico assolutamente rispettato ma comunque noto, il suo protagonista sembra galleggiare in un oceano di follia. Una disumanità immediata, poiché fisicamente percepibile. Alimentata dal ricorso alla finzione, alla progressione di una storia; e quindi sempre debitrice del realismo insito nel fotogramma cinematografico. Ma disumanità egualmente eterna: in quanto resa quasi astratta, soprannaturale, non contestuale dalla qualità di quello sguardo. Per riuscirlo, l'ungherese allievo di Bela Tarr si è occupato dapprima della costruzione degli sfondi; ma per lasciarli (quasi a protezione dello spettatore) nel non-detto di una zona d'ombra, costantemente sfuocata, o fuori campo, appena intuibile. Incollandosi quindi con la cinepresa a spalla al protagonista, in piani sequenza e un unico obiettivo, all'interno del formato storico 1.33. E lasciando finalmente ai suoni d'ambiente, alle urla, tutto ciò terribilmente evocativo, il compito di trattenerci all'interno del girone infernale. Nella sua progressione non più soltanto iperrealista, prima di un bellissimo finale liberatorio il film cade forse in qualche stasi narrativa; ma il lavoro nella memoria degli spettatori si è ormai compiuto per sempre.


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