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C'ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA
(BIR ZAMANLAR ANADOLU'DA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 30 dicembre 2011
 
di Nuri Bilge Ceylan, con Muhammet Uzner, Yilmaz Erdogan, Taner Birsel (Turchia, 2011)
 
La notte e il giorno, l'oscurità e la luce: quanto nascondiamo dentro di noi e quanto ci accomodiamo alla realtà che ci circonda. Tutto da conquistare, per la sua lentezza inizialmente esasperante, la volontà di attardarsi su personaggi e ambienti con delle cadenze che abbiamo ormai dimenticato, l'ultimo film del beniamino turco dei festival è un poliziesco. Non radunerà per questo le masse (come accadeva al cinema di Antonioni, al quale più si riferisce, per i legami delle sue storie con il loro sfondo): ma premierà per sempre, dalla contemplazione anche faticosa dei suoi inizi al fascino struggente dell'umanità che impregna le sequenze finali, la memoria di ogni spettatore padrone della propria impazienza. In questo senso, C'ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA è il film a tutt'oggi più compiuto di un regista che è ormai fra i più grandi del cinema contemporaneo

Nell'immensità delle colline deserte che circondano un villaggio dell'Anatolia, nella notte lunga come l'oscurità fonda che la contiene, in tempi quasi reali, si snodano i fari di tre automobili in lontananza lungo le volute labirintiche di un cammino. Alla ricerca di un cadavere sepolto da un presunto assassino (che sembra però aver perso la memoria), destinati a vagare fino all'alba assieme al detenuto, ecco un procuratore giunto da Ankara, un medico legale, un commissario, un manipolo di soldati infreddoliti. Si gira a vuoto, si discute, si riflette, si borbotta: e lentamente, assieme al film, i sentimenti, i significati, costantemente in equilibrio fra l'assurdità dell'indagine materiale e quotidiana e la deriva metafisica, affiorano con una inesorabile forza lancinante.

“Se volete trovare qualcosa, dovete dapprima perdervi”, come dice Nuri Bilge Ceylan. La notte, e finalmente la luce: il mistero dei chiaroscuri misteriosi, dei suoni soprannaturali, delle geometrie splendide del poema visuale offerto dalla sapienza spaziale del cineasta si mutano allora nel chiarore abbagliante dell'altra faccia della realtà. L'autopsia, non solo quella cruda del cadavere infine ritrovato: ma la dissezione, pudica e commovente, dei percorsi intimi dei protagonisti, dei dubbi, delle ferite, dei rinvii filosofici nati dalle loro esperienze vissute. E il cammino doloroso, attraverso un'indagine nello spazio soprannaturale piuttosto che da uno scalpello attraverso le viscere, compiuto dal figliolo della vittima. Che osserviamo correre in lontananza, assieme allo sguardo smarrito del medico legale che ci ha fatto da specchio durante tutto il film: in quel finale indimenticabile, verso i compagni che giocano nel cortile della scuola.


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