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LO ZIO BONMEE CHE SI RICORDA LE VITE PRECEDENTI
(LUNG BOONMEE RALUEK CHAT)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 5 dicembre 2010
 
di Apichatpong Weerasethakul, con Thanapat Saisaymar, Jenjira Pongpas, Sakda Kaewbuadee, Natthakarn Aphaiwonk (Thailandia, 2010)
 
Il thailandese dal nome impronunciabile ci aveva già intrigato e incantato per l'originalità di uno sguardo non solo straniante poiché immerso nel fascino delle culture del proprio paese, del buddismo o dell'animismo. Ma per la testimonianza, da parte di un artista polivalente uso a spaziare, dopo una formazione in architettura, dalle istallazioni museali dell'arte contemporanea alla video-art sperimentale, di una libertà creativa perlomeno sorprendente. Dalla rivelazione, sempre a Cannes, di BLISSFULLY YOURS a quella ancora più eclatante e premiata di TROPICA MALADY nel 2004 era già chiaro che si stava proponendo nel cinema un nuovo universo, estetico e poetico. ONCLE BOONMEE, forse la più radicale delle Palma d'Oro che Cannes abbia mai osato assegnare, ne è la conferma indubbiamente clamorosa.

Quelle di Apichatpong Weerasthakul sono storie evanescenti, tipiche di una cultura che molto si affida alle relazioni fra il mondo dei vivi e la presenza quasi materiale dello spirito dei morti. Cosi, alla cena nella tenuta agricola dell'anziano protagonista malato di LO ZIO BOONMEE compaiono due ospiti inattesi, la moglie deceduta da tempo e il figlio scomparso. Apparizione magica, ma che il regista dipinge con un realismo prosaico, quasi noncurante (sconcertante, ai nostri occhi occidentali?): in netta contrapposizione al delirio fantastico con il quale accompagnerà tutta la famiglia all'interno della giungla, fino alla grotta, luogo di nascita di colui al quale è dato ricordarsi delle proprie vite anteriori.

Un itinerario che nell'estrema fisicità (della natura, della fauna, degli elementi naturali) conduce l'individuo al soprannaturale, al fantastico, all'extra sensoriale; alla ricerca confortante del nido, in compagnia dei fantasmi dei cari che lo hanno preceduto in questo tragitto. Nulla di macabro, di pedante, e forse nemmeno di mistico (come quello splendido bufalo della sequenza iniziale, che sarà il primo a perdersi nella foresta); ma piuttosto di commosso, e quasi ironico (come gli scimmioni dagli occhi al neon che scopriamo un po' allibiti far parte dei parenti defunti del nostro). Un film ipnotico, per alcuni certamente ai confini del soporifico, capace però di sequenze di un'audacia fantastica e di una libertà espressiva impensabili, come la fecondazione, sotto una cascata, di una principessa del passato da parte di un pesce gatto dalla guizzante intraprendenza.

Weerasthakul riesce miracolosamente a rendere naturale il suo soprannaturale, maliziosi e dissacranti i suoi reincarnati, trasparenti fino a risultare abbaglianti i lati oscuri del nostro universo. Non sempre, in verità, a evitare certe ripetizioni rispetto alle sorprese di TROPICA MALADY; a fluidificare l'immersione nel soprannaturale schivando certi echi evidenti alla Douanier Rousseau; a dinamizzare il quotidiano di un racconto che non disdegna riferimenti all'attualità anche politica. Forse, (a rischio di apparire prosaico dopo tanta spiritualità) a non passare alla storia come l'autore della meno frequentata fra le solitamente popolari palme d'oro di Cannes.


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