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I FIORI DI SHANGAI
(HAI SHANG HUA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 maggio 1998
 
di Hou Hsiao-hsien, con Tony Leung, Michiko Hada, Michèle Reis (Taiwan, 1998)
 
FIORI DI SHANGAI conferma quanto si sapeva, e cioè che Hou Hsiao Hsien è uno dei più raffinati utilizzatori del mezzo cinematografico che si conoscano attualmente. Dire che adatta un romanzo del 1894, che ricrea i bordelli di Shanghai alla fine del secolo scorso, che scava nei rapporti fra le donne, le cortigiane che vi abitavano e gli uomini, quelli delle caste privilegiate che li frequentavano, arrischia di dare un'idea assai lontana dalla situazione. Perché è lo stile, la qualità dello sguardo dell'autore a trasfigurare, elevare la rappresentazione. Non solo, parrebbe quasi inutile dirlo, in tutto il film non si vedrà un solo centimetro quadrato di epidermide, l'accenno ad un lenzuolo, la minima rappresentazione di quel meretricio tradizionale alla quale siamo usi. Ma la costruzione di Hou è quanto di più inatteso si possa aspettarsi: del tutto astratta, lontana da ogni drammaturgia, fatta da una serie di brevi siparietti filmati in piani-sequenza dal rigore terrificante, di inquadrature studiate con una cura da cesellatore, montate con una fluidità melodiosa, in contenitori scenografici dove il fruscio di una seta o il bagliore di un rosso cupo crescono con la forza di un tuono lontano, sullo sfondo di un languore minuzioso che il commento musicale All'interno di questo scrigno prezioso e crudele assistiamo per lo più ad una serie di discussioni, meglio di dissertazioni economico - morali sulle situazioni delle varie coppie, sui rapporti con la società.

Ne nasce uno spaccato, una riflessione su un mondo scomparso; delicata, melanconica, ma al tempo stesso cruda, analitica e lucida. Dove le vittime, oggi come allora, non sono necessariamente dalla parte che crediamo; dove dietro l'angolo della ricostruzione d'antiquariato si nasconde lo stimolo di uno sguardo moderno.

Sontuosa, impareggiabile operazione: certo, relegata fra le sommità di una torre d'avorio che arrischia di renderla inaccessibile alla comprensione (e, prima ancora, alla distribuzione) dei mercati occidentali.


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