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CLEVELAND VS. WALL STREET Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 25 novembre 2010
 
di Jean-Stéphane Bron, con Barbara Anderson, Josh Cohen, Keith Fisher, Robert Kole, Raymond Velez (Svizzera, 2010)
 
Al losannese Jean-Stéphane Bron le imposizioni aguzzano l'ingegno. Già nel 2003, quando decide di filmare a Berna le discussioni della Commissione parlamentare sul progetto di legge degli OGM, gli vietano di entrare in aula. Poco male. Bron piazza la sua cinepresa in corridoio, fuori dalla porta: interroga i parlamentari all'uscita, ne indaga le psicologie, ne svela le strategie. Miracolosamente in bilico fra documentario e finzione, da un soggetto complesso e non esattamente spettacolare come l'ingegneria genetica, ottiene un'appassionante progressione drammatica. Grazie ad un uso lucido e sorprendentemente inventivo del linguaggio cinematografico, Il genio elvetico - Mais in Bundeshuus riusciva cosi a farci entrare nel gioco dell'intelligenza politica e civica, nelle trame del potere e della natura umana.

Piccolo capolavoro, miracolo casuale all'interno della pur gloriosa tradizione del documentario elvetico? Non esattamente: se a sette anni di distanza, e dopo un'esperienza non altrettanto felice nel campo della fiction più dichiarata (MON FRERE SE MARIE, 2006) gli riesce una meraviglia del tutto simile. A cominciare, guarda caso, dalla presenza dell'ostacolo iniziale, l'interdizione, lo stallo destinato, più o meno scientemente, a rimandare l'ora della verità.

Dal 2003 siamo passati all'autunno 2008: quello della crisi finanziaria che ancora ci concerne, dei subprimes e del fallimento della Lehman Brothers. Da Berna a Cleveland (Ohio), nel cuore ormai malconcio dell'industria degli Stati Uniti. Dove la città sta tentando inutilmente d'intentare un processo, protratto all'infinito dagli avvocati delle parti avverse, alle 21 banche di Wall Street che hanno desertificato interi quartieri e ghettizzandone gli abitanti con gli espropri immobiliari.

Se il processo vero è impossibile, perché non costruirne uno cinematografico, magari più vero, introspettivo e efficace? Cosi, il cineasta inventa, ma inventa servendosi della realtà: fonde il cinema documentario e di finzione in un'armonia cosi sapiente da risultare destabilizzante. Obbligando cosi lo spettatore a porsi interrogativi altrimenti improbabili, tutti giocati su quei confini fra realtà e astrazione. Poiché recitano (ma fino a quando?) i protagonisti veri del dramma, gli sfrattati, gli agenti che furono costretti a usare la violenza, gli improvvisati broker. Ma di fronte a un giudice vero, dei veri avvocati, e una giuria popolare che dovrà pronunciarsi, prima di lasciare lo spazio, pure quello autentico, dell'aula giudiziaria. La realtà, incollata ai dialoghi, sul filo continuo dei primi piani che colgono la serietà, le reazioni minime dei testimoni. Ma ordinata nel senso di una progressione drammatica, quella alla quale ci hanno abituato da tempo i film sui processi della grande tradizione dei Preminger, Lumet, Lang, Kubrick.

Agli antipodi dai giochini alla Michael Moore, nell'equilibrio perfetto del suo cinema razionale al regista romando riesce cosi non solo di spiegare con l'emozione i meccanismi gelidi della finanza; ma di allargare la riflessione ad un'epoca dalla progressiva avidità dei pochi nei confronti dell'ingenuità dei tanti.


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