Un Bergman tipico, ridotto all'osso. Nella stessa isola di LA VERGOGNA, esemplare ambiente chiuso, in provetta, microcosmo per le proprie esperienze sui destini dell'uomo, il regista pone i suoi personaggi, due coppie in questo caso, come sempre in conflitto insormontabile con il proprio significato esistenziale, con i problemi di incomunicabilità, di solitudine, d'impossibilità, d'amare, di assenza di Dio.
Come sempre, inutile sottolinearlo, Bergman fa le cose ad un livello superiore, forse insuperabile, come giudicano i suoi più incondizionati ammiratori. La sua padronanza del linguaggio cinematografico, che è sempre stata grande, è ora di una maturità consapevole. La sua direzione degli attori è eccezionale, ed infatti Sydow, Ulmann e Andersson sono di una evidenza e di una verità rare; costituendo, a mio parere, la cosa migliore del film.
Bergman, dopo tanti film, ha posto però i suoi personaggi ad un livello così alto da apparire ormai irraggiungibile. Essi non hanno ormai nulla a che spartire con i comuni mortali. Sono degli emblemi, dalle personificazioni più o meno astratte dei conflitti che agitano la coscienza del loro autore. Vivono in un mondo immateriale, a dispetto del paesaggio in cui agiscono, sotto una campana di vetro che li separa da noi nutrendoli di una atmosfera che non è più la nostra. Li guardiamo deambulare, nutrirsi o fare all'amore -per non parlare di quando riflettono- in un modo completamente distaccato, come abitanti di un altro pianeta. Forse questo è il risultato di un intervento artistico; significa il potere di proiettare dei nostri simili in una dimensione perfetta, eterna. O, forse, soltanto essere andati troppo in là.