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JOE HILL
(JOE HILL)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 16 gennaio 1975
 
di Bo Widerberg, con Thommy Berggren, Ania Schmidt, Kelvin Malave (Svezia, 1971)
 
Proveniente dall'edizione 1971 di Cannes, particolarmente ricca (c'erano Il Messaggero, Morte a Venezia, Johnny Got His Gun, Taking Off, Souffle au coeur, La Salamandra,…) JOE HILL è proiettato da noi con un ritardo una volta tanto provvidenziale. Perché coincide con la presentazione degli EMIGRANTI di Jan Troell. Due svedesi, senza dubbio marcati dalla personalità di Ingmar Bergman (tanto da esserne considerati gli eredi), due temi simili (l'emigrazione svedese negli Stati Uniti), due film d'epoca. E, in modo assai straordinario, due modi diversi di fare del cinema, ma due conclusioni non molto differenti malgrado un cammino stilistico dissimile in due cineasti che hanno camminato passo a passo poiché, fino a pochi anni fa, Troell scriveva le sceneggiature per Widerberg.

Troell ha scelto la strada maestosa di un certo cinema nordico, la composizione sontuosa, il ritmo lento che dona alle immagini significati eterni e che richiama alla mente lo stile dei grandi classici del cinema. Widerberg, al contrario, è fuggito dalla suggestione della gran luce svedese. Pur conservando un gusto prezioso (talvolta fin troppo) nella scelta delle inquadrature seducenti il suo è un cinema infinitamente più rapido, nello stile come nella volontà di abbracciare molti temi e molti personaggi. La denuncia di Troell nasce dalla descrizione del gesto quotidiano, ripetuto all'infinito, fino a diventare emblematico. Quella di Widerberg da una sensibilità nervosa che gli fa schizzare le situazioni e le loro conseguenze per abbandonarle immediatamente, con una costruzione ellittica (quella che, nel cinema, permette di far intuire allo spettatore tutto l'arco di una situazione, pur mostrandone soltanto l'inizio ed eventualmente il termine) al limite del possibile e del credibile. Si pensi all'episodio del ragazzino, a quello delle scarsissime ma essenziali immagini che dipingono la pausa di Joe Hill nella fattoria e, soprattutto, al ferimento fatale.

Ma il grande merito di Widerberg sta nella sua grande umanità, nella sua semplicità, la volontà di sdrammatizzare l'aneddoto per raggiungere così, attraverso un humour delicato e diretto, la strada di un cinema popolare, facilmente comprensibile, privo di ogni presunzione intellettualistica. JOE HILL è la storia di una presa di coscienza progressiva da parte di un giovane immigrato, dei problemi di classe, dei moti operai collettivi dell'inizio secolo americano, di tutta una struttura (il processo) che condiziona da sempre l'individuo. Il merito del suo autore è di esprimere un tema così essenzialmente popolare in modo splendidamente popolare. La sua indignazione si libera con un'efficacia che diventa poesia proprio grazie alla capacità di Widerberg di restare semplice, umano. Di divertirsi anche, come fa nella sequenza, invero assai straordinaria, del ristorante: una sequenza che in qualsiasi altro film sarebbe stata estranea al soggetto, ma che Widerberg riesce ad inserire nel caleidoscopio multiforme della propria ispirazione.

Il film assume via via tanti aspetti dissimili: dall'affresco storico alla commedia sentimentale e brillante, dalla ballata quasi musicale al dramma. Se Widerberg ci riesce è perché egli possiede un talento raro. E, oltre tutto, la grazia ancor più rara di restare con i piedi per terra, di guardare in faccia alla gente: di passare così da una scena allucinante come quella della fucilazione allo "one-step" sconcertante ma giustissimo dello splendido finale.


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