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FAUST Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 aprile 2012
 
di Aleksej Sokurov, con Johannes Zeiler, Anton Adasinsky, Isolda Dychauk, Georg Friedrich, Hanna Schygulla (Russia, 2011)
 
Unico, inimitabile. Come definire altrimenti un cinema nel quale si entra guadagnandoselo come un'opera di Wagner, come ogni capolavoro che impariamo a conoscere dapprima con paziente raccoglimento, ed infine con infinita riconoscenza. Con esitazione, quindi con ammirazione, ben presto con una partecipazione d'ineguagliabile emozione. Leone d'Oro praticamente indiscutibile all'ultima Mostra di Venezia, il FAUST di Sokurov rilegge Marlowe, Goethe, Mann piuttosto che Murnau: ma, ben presto, è come divorato dalla personalità strapotente, barocca e realista al tempo stesso, indicibilmente visionaria del cineasta russo.

Ha un'avvio certamente virtuosistico, certo non facile se non proprio ermetico, dove la trivialità sembra avere la meglio sulla spiritualità, il desiderio, l'avarizia nell'incessante, estenuante rincorsa in avanti, fino a significare l'inestinguibile sete di conoscenza del protagonista. Girato in Islanda ed in Spagna dove Sokurov ha ricostruito gli ambienti di un apocalittico Ottocento, all'interno di una cornice sontuosa che si alimenta dei rinvii a Brueghel, a Bosch, al romanticismo tedesco, il film appare subito di una lettura più astratta dei precedenti, di opere come LA MADRE o IL SOLE dalle quali l'aneddoto affiorava in modo più evidente. Ed è soltanto nella seconda parte, quando l'azione si concentra su una storia d'amore, su tre personaggi, sul contrasto di un caotico grottesco con la famosa purezza di Margherita che la straordinaria bellezza del film riesce a consolidarsi con commovente pienezza, appoggiandosi finalmente su significati più tangibili del racconto.

FAUST non solo completa così la formidabile tetralogia sul potere composta da MOLOCH (su Hitler, 1999), TAURUS (Lenin, 2000) e IL SOLE (Hirohito, 2005), ma si accomuna a tutta la filmografia del regista di San Pietroburgo, tesa a riflettere l'ombra di quel Mito immenso che fece dire al Goethe del Faust: " sono le persone infelici ad essere pericolose". Il protagonista dell'ultima, straordinaria fatica di Aleksej Sokurov è anche il primo a non essere effettivamente esistito, a significarsi in quanto squisitamente letterario: " un'immagine simbolica, che conclude la galleria dei grandi giocatori che hanno perso le più importanti partite della loro vita. Un eroe letterario, ma nella cornice di una storia in definitiva abbastanza semplice ." Concetti che possono sembrare astratti, intellettuali. Ma che la natura in definitiva carnale del personaggio indotto a vendere la propria anima al diavolo riconduce costantemente su terra.

A tradurli comunque in una suggestione ineguagliabile s'incarica la forza indicibile dell'invenzione formale del regista, la riflessione estetica che significa ogni piano composto fino all'ultimo e più recondito dei suoi dettagli, il miracoloso equilibrio che regge ogni inquadratura, alimentata in continuità dalle interazioni magnifiche, teneramente sfumate piuttosto che demoniache, tra la paletta cromatica e le illuminazioni. Un equilibrio riproposto nella continuità della progressione drammatica, con una logica che non è mai decorativa nella sua smisurata ambizione; che sembra vibrare di un contrappunto sempre più fremente fra la bellezza sublime dello sguardo e l'accorata partecipazione del pensiero, in un'armonia poetica sempre più trascendentale.


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