Pinto, uno dei portoghesi curiosi di esplorare il mondo delle immagini e non solo di frequentarle, proprio come i De Oliveira, Ruiz, Monteiro con i quali ha collaborato, soffre di VIH e epatite da dieci anni. Ma è solo negli ultimi due che ha deciso di illustrarli in prima persona. Non tanto un diario della malattia, come ne abbiamo conosciuti. Ma una sorta di respirazione sinfonica, umanistica e trascendentale con il mondo che gli sta attorno da parte di qualcuno per il quale lo sforzo di respirare è diventato ormai un fatto cosciente.

Nulla di sensazionalistico, di esibito, tanto meno di raccapricciante: al contrario, un itinerario dell'intimo a contatto con il mondo che gli vive accanto, uno spazio materiale e spirituale nel quale si piantano degli alberi nel terreno arido per vederli crescere domani, si vive in osmosi con gli animali, domestici come i cani o selvatici come api e libellule, si passa dall'infinitamente piccolo del virus che ci possiede all'infinitamente grande di un contenitore cosmico che tentiamo di afferrare.

Pinto è un ricercatore, uno sperimentatore? Nulla di astratto, e non solo per la realtà onnipresente della malattia: le sue sovrimpressioni, ellissi temporali, rallentamenti e accelerazioni non rappresentano mai capricci tecnici. Ma un rifugio nella consolazione infinita del metafisico.