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SANS FIN
(BEZ KONKA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 3 novembre 1989
 
di Krzysztof Kieslowski, con Grazyna Szapolowska, Jerzy Radziwilowicz (Polonia, 1984)
 
L'arte di Kieslowski sembra nascere dalla duplicità: un itinerario verso la fisicità, la realtà, il documento, il piacere di sviluppare una finzione. Ed un altro verso il metafisico (il religioso?) ed il mistero. Verso quella zona che, ai limiti della comprensione, aiuta a comprendere.

SANS FIN è la storia di una giovane vedova che, nella sua volontà di non rassegnarsi alla partenza del marito, di ostinarsi, oltre il limite del possibile e del naturale, all'ineluttabile, trova la forza di sfuggire l conformismo, alla viltà del compromesso politico. Prima di suicidarsi (in un finale che è forse la sola cosa discutibile di un film altrimenti lucidissimo e commovente: una soluzione nichilista - semplicemente religiosa? - alla separazione) essa completa l'opera del defunto marito, avvocato. Salva dalla prigione un giovane sindacalista; ma non come l'avrebbe salvato lui. Facendogli accettare il compromesso con il regime.

Una volta ancora coincidono quindi in Kieslowski il racconto drammaticamente concreto, quasi documentaristico, l'atto d'accusa politico (che immancabilmente porta al sequestro della pellicola) con la fuga (la sola possibile in universo senza speranza?) nel soprannaturale.

Straordinaria e commovente abolizione dei confini che separano realtà da immaginazione, possibilità liberatoria della finzione, esplorazione dell'immaginario, di quel mondo di nessuno che ci separa - in un'epoca di oscurantismo - dallo splendore dell'idealismo. Il cinema del cineasta polacco filma l'astrazione, come quel dolore dell'assenza, nel ritrovare gli oggetti del defunto, della giovane moglie. Lo sconfinamento verso il metafisico di una presenza / assenza mostrata anche in immagine. Ma filma anche, con la sontuosa sensualità che ne fanno uno dei grandi pittori dell'eros moderno, il corpo femminile, la struggenza di una mancanza fisica, l'atto d'amore.

Come nello splendido DECALOGO 1, il passaggio dalla realtà all'astrazione avviene quasi impercettibilmente, attraverso dei segni minuscoli che vengono introdotti dalla regia nel racconto, dei piccoli momenti d'instabilità, di smarrimento che coinvolgono al tempo stesso lo spettatore e la protagonista: un cane che viene ad annusare inspiegabilmente la macchina del marito, un giornale scomparso che improvvisamente si ritrova, un punto d'interrogazione che nessuno ha posto accanto al nome del nuovo avvocato incaricato dell'inchiesta, una mano che finisce in una trappola per topi.


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