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JAPON
(JAPON)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 21 marzo 2008
 
di Carlos Reygadas, con Alejandro Ferretis, Magdalena Flores, Martin Serrano (Messico, 2001)
 
Com'è che un film che qualcuno (Le Monde) aveva definito come “il più bello di questo inizio secolo”, com'è che un esordio fra i più sensazionali che si ricordi (fortunatamente ricompensato con la Caméra d'Or al Festival di Cannes del 2002), esperienza ipnotica, allucinante, assolutamente sensuale, destinata a creare uno dei ponti più significativi fra cinema di finzione, video-art, ricerca sperimentale e audiovisiva come JAPON può restare nascosta da sei anni fra i fondi di magazzino della nostra distribuzione cinematografica? Forse, e banalmente, perché in un'epoca impaziente e superficiale come la nostra questo primo lungometraggio, visionario, crudelmente introspettivo, di un autodidatta neppure trentenne, girato fra i cactus nelle desolate montagne messicane, costituisce uno dei tanti oggetti ostici, poiché misteriosi, per le generazioni addette allo zapping convulsivo sui serial televisivi.

JAPON (nulla di giapponese, se non per la sua chiave di straniante trascendenza) è un film lento, contemplativo: un'osservazione dell'uomo e della natura che non è soltanto di una bellezza sospesa nel tempo, primitiva e di un lirismo incantatorio; ma di un commovente desiderio di approfondimento, costruito sulle misteriose conseguenze mentali, spirituali e morali che nascono inevitabilmente dalle risonanze ipnotiche fra l'uomo e l'ambiente che lo circonda. Progressivamente, come in un viaggio dell'intimo, ma terribilmente basato sull'osservazione fisica, la cinepresa esce dall'universo assordante di una galleria autostradale o, se preferite, dalla contemporaneità urbana, per immergersi in un paesaggio dalla normalità accecante: le linee della pianura che da orizzontali e semidesertiche acquistano la verticalità dei canyons, l'asfalto, poi la polvere, i sassi nei gridi degli uccelli, degli animali, degli elementi naturali. Nella visione magnificata all'infinito dal cinemascope, nella risonanza di una formidabile resa sonora dello sfondo, attenta ai fremiti più reconditi che scalfiscono il silenzio, sapremo di quell'uomo che s'incammina zoppicante in un ambiente al tempo stesso realistico (i bambini che gli giocano attorno, i paesani che gli indicano il cammino) e continuamente proiettato nel sogno di un assoluto cosmico, una sola cosa. Fra quelle cime ci vado “per matarme”. Che poi le cose andranno diversamente, che poi il viaggio si trasformi in una serie di esperienze sempre più stranianti, fa parte di un'esperienza che non può essere che condizionata dalle fortissime suggestioni visive, così insolite o paradossali del film. Di un film che all'umiltà di una produzione affidata a dei giovani esordienti, a degli interpreti non professionisti, a una tecnologia tradizionale allea il virtuosismo quasi sfrontato di un piano-sequenza così incredibile come quello che conclude l'esperienza. Straordinariamente affascinante, eventualmente esasperante, un atto di fede nella forza dell'immagine cinematografica così follemente ambizioso, audace e ispirato da lasciare un segno indelebile.


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