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IL GIOVANE FAVOLOSO Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 novembre 2014
 
di Mario Martone, con Elio Germano, Michele Riondino, Valerio Binasco, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis (Italia, 2014)
 

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Artista prezioso e per molti aspetti unico all'interno della scena italiana, nell'avanguardia teatrale dapprima, quindi cineasta poco prolisso ma sempre raffinato a partire dal 1992 di MORTE DI UN MATEMATICO ITALIANO, Mario Martone ha in seguito scavato nella sua Napoli in L'AMORE MOLESTO (1995), è ritornato sui palcoscenici operistici, ha indagato come pochi il Risorgimento italiano con le tre ore e mezzo di NOI CREDEVAMO (2010). Prima di affrontare una prima volta la figura immensa e cosi difficile da circoscrivere di Giacomo Leopardi, portando sulla scena teatrale la prosa filosofica e radicale delle "Operette morali". Martone ritorna con Il giovane favoloso a percorrere quegli ardui itinerari leopardiani visualizzandoli pure, e un po' didatticamente, con "L'infinito" dell'inizio e "La ginestra" che conclude il suo film presentato all'ultima Mostra di Venezia. I rischi dell'operazione gli erano noti: tanto da fargli premettere di non volere ricadere nel biopic sul poeta triste e malinconico dalla vita non particolarmente eccitante. Ma di volerne sottolineare al contrario la natura meno nota: non tanto quella del romantico, ma del ribelle dall'anima ardente, bruciata al contatto con la vita. Da qui, allora, la scelta di uno stile che immediatamente colpisce nel film: quasi in opposizione al distacco della visione "brechtiana", l'energia teatrale dei dialoghi, la forza disperata di qualcuno che vuole combattere con l'arma delle parole. Il Leopardi che ci illustra Martone (e qualcuno si è lamentato del carattere troppo aneddotico del procedimento) è un individuo prigioniero delle costrizioni, la famiglia, la religione, la casta, il lavoro, le convenzioni sociali. Ma è pure un ribelle, progressivamente sempre meno represso, nei confronti degli ideali di quel primo Ottocento in cui vive. Un visionario profetico, quindi, oltre che sublime Poeta; un individuo a cavallo di due filosofie epocali come non sarebbe dispiaciuto a Luchino Visconti.. E' quanto incarna un Elio Germano febbrile, prigioniero fin dall'inizio di una infelicità che lo inchiodava non solo nel proprio corpo gracile e ingobbito, ma nella pur favolosa biblioteca paterna, nell'odiata Recanati, nel solo conforto delle breve incursioni nella natura, nell'attesa sfibrante di una fuga finalmente permessa dal suo rapporto epistolare con Pietro Giordani, il letterato illuminato che per primo ne aveva intuito il dramma e la statura profetica. Grazie agli attori ai quali riescono dei profili moderni, grazie alla luce come sospesa nel tempo donata al film da un Renato Berta particolarmente ispirato, all'autenticità autobiografica del materiale, grazie a certe cadenze "operistiche"che solo gli appartengono (e non solo per avere mischiato Rossini agli effetti elettronici dei Sascha Ring) al regista riesce di evitare gran parte dei rischi della ricreazione romantica da chincaglieria di genere. Certo, appare fin troppo legato al flusso obbligato della narrazione, a una certa ripetitività nel segno del pessimismo melanconico del protagonista; ma sa anche rifugiarsi nel non detto del sogno e del fantastico (quasi troppo, in quell'apocalittico finale alla Malick con il Vesuvio in fiamme) che gli permette di evitare il gelo dell'accademismo.

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A precious and in many respects unique artist on the Italian scene, first in the theatrical avant-garde, then a not very verbose but always refined filmmaker since 1992's MORTE DI UN MATEMATICO ITALIANO, Mario Martone later delved into his Naples in L'AMORE MOLESTO (1995), returned to the operatic stage, and investigated the Italian Risorgimento like few others with the three and a half hours of NOI CREDEVAMO (2010). Before tackling the immense and so difficult to circumscribe figure of Giacomo Leopardi for the first time, he brought the philosophical and radical prose of the 'Operette morali' to the theatre stage.

Martone returns with Il giovane favoloso to tread those arduous Leopardi itineraries, visualising them as well, and somewhat didactically, with "L'infinito" at the beginning and "La ginestra" which concludes his film presented at the last Venice Film Festival. The risks of the operation were well known to him: so much so that he premised that he did not want to relapse into a biopic on the sad and melancholic poet whose life was not particularly exciting. But of wanting to emphasise, on the contrary, his lesser-known nature: not so much that of the romantic, but of the rebel with a burning soul, burnt out by contact with life. Hence the choice of a style that is immediately striking in the film: almost in opposition to the detachment of the 'Brechtian' vision, the theatrical energy of the dialogues, the desperate strength of someone who wants to fight with the weapon of words.

The Leopardi that Martone illustrates (and some have complained that the proceedings are too anecdotal) is an individual prisoner of constraints, family, religion, caste, work, social conventions. But he is also a rebel, progressively less and less repressed, against the ideals of the early 19th century in which he lives. A prophetic visionary, then, as well as a sublime poet; an individual straddling two epochal philosophies, as Luchino Visconti would not have minded. This is what a feverish Elio Germano embodies, a prisoner from the beginning of an unhappiness that pinned him not only in his own frail and hunchbacked body, but in his father's fabulous library, in the hated Recanati, in the sole comfort of brief forays into nature, in the exhausting wait for an escape finally permitted by his correspondence with Pietro Giordani, the enlightened man of letters who first perceived his drama and prophetic stature.

Thanks to the actors who succeed in creating modern profiles, thanks to the light as if suspended in time given to the film by a particularly inspired Renato Berta, thanks to the autobiographical authenticity of the material, thanks to certain 'operatic' cadences that only belong to him (and not only for having mixed Rossini with the electronic effects of the Sascha Ring), the director manages to avoid most of the risks of romantic recreations of genre trinkets. Admittedly, he appears to be too tied to the obligatory flow of the narrative, to a certain repetitiveness in the sign of the protagonist's melancholic pessimism; but he also knows how to take refuge in the unspoken dream and fantasy (almost too much so, in that apocalyptic Malick-style finale with Vesuvius in flames) that allows him to avoid the chill of academicism.

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