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Come tutti i film di Nanni Moretti, MIA MADRE è un film sullo smarrimento. Come il pontefice di HABEMUS PAPAM e i tanti personaggi morettiani che l'hanno preceduta (impossibile dimenticare il leggendario  dì qualcosa D'Alema, dì una cosa, reagisci, dì una cosa di sinistra! di APRILE) nel suo nuovo film di quasi tutte donne Margherita (Margherita Buy) si perde nei suoi tentativi sempre più vani di comprendere il mondo che le sta attorno. Un mondo che le sfugge sempre più: come quel film che lei sta girando da regista, su un confronto fra operai e padroni che apparentemente non le appartiene più. Come sua madre, ricoverata all'ospedale che, con altrettanta evidenza è destinata a spegnersi. In quel vuoto generalizzato qualche figura maschile susssiste. Il divo che sbarca da Hollywood ( John Turturro) per assicurare al film di Margherita il marketing internazionale, in un ruolo a tratti divertente ma che finisce per sfiorare il macchiettismo invadente; e una serie di profili sfumati fra ex mariti e provvisori amanti della protagonista. Ma, sopratutto, Nanni stesso, nel ruolo del fratello che asssiste amorevolmente la madre. Una figura di bella umanità che risalta nell'agitazione generale, pur senza abdicare, nel suo ritegno e nella sua partecipazione che si sente autobiografica, a quel narcisimo morettiano che rimane come di dovere un segno irrinunciabile della sua personalità. MIA MADRE deve molto al suo montaggio, giocato com'è fra indeterminate e dolorose fughe in avanti e inevitabili flash back; fra l'intimismo dell'annunciata scomparsa della madre e l'apertura verso l'esterno, nelle fragorose sequenze delle caotiche riprese del film di Margherita. E' uno dei pregi del film, subito evidenti nella esposizione iniziale delle varie situazioni, perfette nella loro concisione; un'armonia che si protarrà per tutta la durata della pellicola, glissando fra i vari momenti psicologici, attraversando i suoi toni accorati, divertenti, addirittura - considerando il tema - comici. Con la mano del maestro in pieno possesso del proprio linguaggio Moretti è cosi capace di filmare tutto quel vuoto: senza volerlo spiegare con pedanteria, ma svelandolo, in quel suo movimento armonioso e solo in apparenza svagato nello spazio e nel tempo, assieme al pudore e la commozione della propria intimità, oltre che della sua poetica. Con MIA MADRE Moretti prosegue, o forse conclude l'aspetto del suo cinema rivolto all'interno di sé stesso iniziato nel 1978 con l'autoironia ai confini della goliardia diIO SONO UN AUTARTICO, ECCE BOMBO,SOGNI D'ORO, BIANCA; e proseguito, con sempre maggiore introspezione e esigenza morale, attraverso opere come CARO DIARIO, APRILE e in particolare LA STANZA DEL FIGLIO. E' l'altro tragitto, più rivolto verso l'esterno, che il regista compie in parallelo al percorso più dichiaratamente introspettivo; e che affiora in uno dei suoi capolavori, PALOMBELLA ROSSA (1978), per svilupparsi meno compiutamente in IL CAIMANO e, in modo sovrano, in HABEMUS PAPAM. Il cineasta non è più allora (con le sue esilaranti nevrosi, con il suo modo di caricarsi delle contraddizioni che lo circondano, con l'assunzione delle più dolorose scadenze) al centro del proprio universo esistenziale ed estetico; ma coinvolto in uno sconcerto che è sempre più partecipe di quello di un'epoca alla quale egli fatica ad appartenere. Tenero e talvolta indulgente (quel sottolineare un pò ovvio la mestizia scolorata degli interni, ad esempio), divertente e afflitto, MIA MADRE è allora la somma, spesso incantata, dei due mondi poetici dello splendido quarantenne. Ora sessantenne.

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Like all Nanni Moretti's films, MY MOTHER is a film about bewilderment. Like the pontiff in HABEMUS PAPAM and the many Moretti characters that preceded it (it is impossible to forget the legendary say something D'Alema, say something, react, say something left-wing! in APRIL) in his new film of almost all women, Margherita (Margherita Buy) is lost in her increasingly vain attempts to understand the world around her. A world that increasingly eludes her: like that film she is making as director, about a confrontation between workers and bosses that apparently no longer belongs to her. Like her mother, admitted to hospital, who is just as clearly destined to die out.

In that generalised emptiness, a few male figures susssist. The star who arrives from Hollywood (John Turturro) to ensure international marketing for Margherita's film, in a role that is amusing at times but ends up bordering on intrusive macchiatism; and a series of blurred profiles among the protagonist's ex-husbands and temporary lovers. But, above all, Nanni himself, in the role of the brother who lovingly assists his mother. A figure of beautiful humanity that stands out in the general turmoil, yet without abdicating, in his restraint and participation that feels autobiographical, that Morettian narcissism that remains as of duty an inalienable mark of his personality.

MIA MADRE owes a great deal to its editing, played out as it is between indeterminate and painful leaps forward and inevitable flashbacks; between the intimism of the announced disappearance of the mother and the opening up to the outside world, in the thunderous sequences of the chaotic filming of Margherita. This is one of the film's merits, immediately evident in the initial exposition of the various situations, perfect in their conciseness; a harmony that will continue throughout the film, gliding between the various psychological moments, through its heartfelt, amusing, even - considering the theme - comic tones. With the hand of the master in full possession of his own language, Moretti is thus capable of filming all that emptiness: without wanting to explain it with pedantry, but revealing it, in that harmonious and only seemingly unhinged movement in space and time, together with the modesty and emotion of his own intimacy, as well as his poetics.

With MIA MADRE Moretti continues, or perhaps concludes, the aspect of his cinema directed within himself that began in 1978 with the self-mockery bordering on the goliardic in I AM AN AUTARTIC, ECCE BOMBO, SOGNI D'ORO, BIANCA; and continued, with ever greater introspection and moral exigency, through works such as CARO DIARIO, APRIL and especially LA STANZA DEL FIGLIO. It is the other journey, more outward-looking, that the director takes in parallel with the more avowedly introspective path; and which emerges in one of his masterpieces, PALOMBELLA ROSSA (1978), to develop less fully in THE CAIMAN and, sovereignly, in HABEMUS PAPAM. The film-maker is no longer then (with his exhilarating neuroses, with his way of burdening himself with the contradictions that surround him, with the assumption of the most painful deadlines) at the centre of his own existential and aesthetic universe; but involved in a bewilderment that is more and more a part of that of an era to which he finds it hard to belong. Tender and sometimes indulgent (that somewhat obvious underlining of the discoloured sadness of the interiors, for example), amusing and afflicted, MY MOTHER is thus the often enchanted sum of the two poetic worlds of the splendid 40-year-old. Now in his 60s.

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