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KIPPUR Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 19 settembre 2000
 
di Amos Gitaï avec Liron Levo, Tomer Ruso, Uri Ran Klauzner (Israele, 2000)
 
6 ottobre del 1973. Reduce da un incontro d'amore, un giovane cammina per le strade deserte di una cittadina araba. È il giorno della festa del Kippur: quello che egiziani e siriani hanno scelto per attaccare lo stato ebraico. Mentre le sirene urlano annunciando il celebre conflitto arabo-israeliano che durerà tre settimane provocando migliaia di morti sul Golan e nel Sinai, il giovane Weinraub corre alla ricerca dell'amico Ruso. Assieme, tenteranno inutilmente di raggiungere la propria compagnia di riservisti nel caos provocato da quell'attacco di sorpresa. Per aggiungersi infine ad una unità di soccorso, incaricata di ricuperare i feriti dal fronte.

Filmati in tempi lunghi, praticamente reali, l'incontro amoroso, la camminata mattutina, il viaggio negli ingorghi per avvicinarsi, sprofondare nel caos apocalittico annunciano ciò che sarà KIPPUR. Un itinerario, formidabilmente reale nelle viscere della guerra. E, al tempo stesso, uno sguardo, incredibilmente distaccato, quindi meditato, terribilmente accorato su ciò che continuiamo a chiamare, quasi ineluttabilmente, guerra. KIPPUR è il primo capolavoro firmato dal cineasta israeliano Amos Gitai, un anno dopo l'ottimo KADOSH. Una delle opere più giuste e significative che siano mai giunte da quelle parti cosi conflittuali ed attuali. Ed un film sulla guerra che rimarrà nella memoria del cinema: proprio perché questa testimonianza precisissima che si fa riflessione universale e filosofica non è un film "di guerra".

Gli stessi tempi allentati dell'inizio, le inquadrature in campo medio o largo, l'accompagnamento continuo dell'azione senza stacchi, i suoni dell'ambiente che lasciano spazio al silenzio li ritroviamo infatti ora, mentre ci introduciamo nell'inferno di un rituale da manuale: l'andirivieni incessante dei barellieri, dall'elicottero fino ai feriti, e viceversa. Movimento pendolare, dapprima generoso, e coraggioso; poi vieppiù insensato, avulso da ogni contatto con la realtà indifferente, anonima che si agita attorno. La cinepresa li accompagna, senza mai intervenire, senza mai sostituirsi al loro sguardo. Testimone muto: che non ci mostra mai l'orrore in soggettiva, la gamba spappolata in primo piano, lo spettacolo della pallottola che colpisce come nel videogame, la messa in scena della morte in diretta. KIPPUR non ci risparmia nulla: lo stupefacente realismo della cinepresa di Renato Berta (indimenticabile, la sua prestazione) ci sbatte in faccia il presente. Ma la volontà che guida la sapienza del rigore registico del film ce ne allontana: evacuando cosi ogni nozione di eroismo, di militarismo come di antimilitarismo; di patriottismo come spettacolo. Quella degli infermieri sprofondati nel fango, impotenti con il loro carico di mezzi morti penzolanti diventa allora non soltanto una metafora un po' facile: ma una storia, assai più terrena e vera, questa, di fatica. Di un'assurda fatica arcaica, sconsolante maledizione fisica che l'umanità si trascina ineluttabilmente appresso.

Realisticamente evidente come poche, la visione di KIPPUR si muta allora in contemplazione astratta. Fuori dal tempo, da ogni riferimento geografico, ogni connotazione drammatica: pur essendo al centro di un celebre litigio di confini, ben presto non sapremo più da quale parte stanno gli uni, e da quale gli altri. Privi di una logica drammaturgica, non vedremo mai i nemici, e nemmeno capiremo dove siano gli amici; per non dire gli eroi, i generali, i politici, gli strateghi o gli esteti (ricordate lo Spielberg di SALVATE IL SOLDATO RYAN?). Poi, l'elicottero s'innalza. La cinepresa assiste muta al suo carico spossato, ma si volge ora anche verso l'esterno. Verso il basso di una geografia sempre più incerta: dove tra i fumi di una pianura vaga s'incrociano indifferenti, privi di senso, gli itinerari dei carri armati anonimi. Dove, fra i resti umani e fisici di una battaglia della quale abbiamo perso i tempi, della terra non intravediamo che le lacerazioni. I solchi lasciati dagli ordigni; le tracce impresse nel fango di quello che era il deserto, che si dipartono verso orizzonti sconvolti.

L'intimità con il gesto, quotidiano fino a diventare illogico dell'uomo e della sua pena. E la visione, ormai distaccata, eterna e consapevole di chi ha vissuto tutte le fatiche. Il dramma assurdo dei conflitti, anche di quelli che l'israeliano Amos Gitai non può che contemplare dall'alto per sfuggire all'attualità che ci minaccia, è tutto in quella terra di nessuno che separa i due momenti poetici di KIPPUR.


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