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IL SAPORE DELLA CILIEGIA
(TA'M E GUILASS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 gennaio 1998
 
di Abbas Kiarostami, con Homayon Ershadi, Abdolrahman Bagheri (Iran, 1997)
 
C'è una frase di Cioran al cuore della Palma d'Oro dell'ultimo festival di Cannes: "Se non ci fosse la possibilità del suicidio, mi sarei ucciso molto tempo fa". Ma, come ricorderanno gli ammiratori di questo umile inventore di forme cinematografiche uniche al mondo, Abbas Kiarostami è pure l'autore di E LA VITA CONTINUA, secondo episodio della trilogia girata attorno al terribile terremoto del 1990, dopo MA DOV'È LA CASA DEL MIO AMICO?. Un film, cioè, nel quale attraverso un gioco sottile sulla realtà e la finzione, una riflessione sul potere delle immagini di intervenire sul destino, si sfocia in un atto di fede poetico e serenamente realista sulla necessità più imperiosa al quale l'individuo è confrontato: quella di continuare. Il cinema è la morte al lavoro, diceva Cocteau. Con i suoi film piccoli ed immensi, Kiarostami sembra rispondergli che il cinema, quando è confrontato al male ed alla tragedia più totale è soprattutto il lavoro della vita.

Una volta ancora, IL SAPORE DELLA CILIEGIAsembra indugiare, non iniziare mai, quasi gli fosse impossibile abbandonare la descrizione della realtà banale e quotidiana per affrontare quella più sofferta dei misteri, degli apologhi. Un uomo percorre alla guida della propria automobile i confini polverosi che separano la periferia industriale della città dalla brulle colline che circondano Teheran. Si ferma accanto agli uomini che incrocia, propone loro di salire, di accettare una somma di denaro in cambio di un favore. Questi esitano, o s'indignano, o s'interrogano, proprio come lo spettatore, sulla natura dell'offerta. Ma non c'è nulla di ambiguo, solo la richiesta di un gesto d'amore: i soldi sono il compenso per pochi minuti di lavoro, poche badilate di terra. Da gettare l'indomani all'alba, in una buca scavata in cima alla collina, sul corpo del protagonista che si sarà nel frattempo suicidato.

Chi finirà per accondiscendere è il più umano di tutti: un vecchio contadino di origine turca che tira a campare speculando pure lui sui confini tra la vita e la morte, rifornendo di uccelli da impagliare il museo di storia naturale. È suo il richiamo a quel gusto della ciliegia che dà il titolo al film: e fa parte di un commovente elenco di felicità perdute, un lungo monologo con il quale il vecchio cercherà di dissuadere il protagonista dal mettere in atto i suoi propositi.

Tutto qui, più un finale a sorpresa. Ma IL SAPORE DELLA CILIEGIA è memorabile, come tutti film di Kiarostami, proprio perché "tutto qui". Per il vitalismo insopprimibile che abita le sue situazioni più disperate, la forza di una denuncia trattenuta, mai declamata, che s'insinua nella mente della spettatore solo più tardi. Per la stilizzazione straordinaria di un film semplicissimo, essenziale, in un'epoca nella quale il messaggio più volgare è affidato alla declamazione, all'eccesso, alla moltiplicazione sempre più futile e sterile degli effetti.

Abbandonando per la prima volta la formula del "film sul film", affrontando di petto la descrizione di una situazione, Kiarostami sembra non soltanto voler innovare nel proprio stile: ma denunciare nuove emergenze, invitare a combattere ulteriori urgenze. Sulla spirale labirintica delle strade provvisorie che incrociano ossessivamente le colline, nella trasparenza della notte che succede finalmente alla polvere accecante prodotta dalle scavatrici dei cantieri,IL SAPORE DELLA CILIEGIAassume progressivamente il disegno rarefatto di un diagramma.

Quello che segna, su un paesaggio eternamente eguale, sconsolatamente ripercorso, i confini sempre più fragili e misteriosi fra disperazioni e speranze, dubbi e certezze, abbandoni ed interventi sui quali s'interrogano le generazioni presenti.


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