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IL CERCHIO
(DAYEREH)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 ottobre 2000
 
di Jafar Panahi. Con Fereshteh Sadr Orafai, Nargess Namizadeh (Iran, 2000)
 

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Dai bambini, soggetto prediletto di quel cinema iraniano, semplice, diretto e spesso magistralmente sublimato nella sua forma che ormai conosciamo, alle donne. Che non possono fumare o cantare per strada, circolare senza documenti, salire su un auto guidata da un uomo che non sia un parente, entrare da sole in un luogo pubblico; oltre che accedere a diritti ancora più importanti come, figuriamoci, l'aborto. Come non aderire immediatamente, allora, ad un film come IL CERCHIO (Leone d'Oro alla recente Mostra di Venezia), che inizia con la nascita di una femmina accolta in famiglia peggio della morte di un congiunto? Tanto più che l'autore di LO SPECCHIO (Pardo d'Oro a Locarno nel 97) sa far sua la grande prerogativa del cinema: inserire una storia, i suoi personaggi, le loro psicologie in un ambiente. La strada, la folla, la società, la famiglia. Nelle quali otto donne sono seguite a turno; prima di vederle nella sequenza finale, per la prima volta riunite, nel luogo non più metaforico al quale erano predestinate, la prigione. L'infernale sequenza di avversità quotidiane alla quale le protagoniste del film sono confrontate non scade mai nel melodramma: per l'autenticità, la curiosità dello sguardo di Jafar Panahi. La cinepresa, ma ancor la sceneggiatura sapiente riescono ad essere di una verità documentarista; al tempo stesso, ad isolare dei personaggi senza passato confrontati ad un crescendo di avversità apparentemente normali. Ma che si trasformano in una minaccia maggiore, eppure occulta, dalle motivazioni misteriose. E quindi non solo aberrante, ma pure immutabile ed eterna.

Sino a quando il film riesce a restare miracolosamente in bilico fra questi due poli inconciliabili, realtà ed astrazione, IL CERCHIO si alimenta di una grande forza emotiva. Meno, a partire da quello che assume sempre più l'aspetto convenzionale di un terzo, quarto episodio: l'arrivo di una costruzione drammatica più scritta e pensata (la madre costretta ad abbandonare la figlioletta, la prostituta e la volgarità delle milizie), del sospetto di un procedimento che toglie un poco al film la bellissima facilità della parte iniziale.

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From children, the favourite subject of Iranian cinema, simple, direct and often masterfully sublimated in the form we now know it, to women. Who cannot smoke or sing in the street, circulate without papers, get into a car driven by a man who is not a relative, enter a public place alone; as well as access even more important rights such as, let alone abortion. How can one not immediately adhere, then, to a film such as DAYEREH (Golden Lion at the recent Venice Film Festival), which begins with the birth of a female welcomed into the family worse than the death of a relative? All the more so since the author of LO SPECCHIO (Golden Leopard at Locarno in '97) knows how to make the great prerogative of cinema his own: to place a story, its characters, their psychologies in an environment. The street, the crowd, society, the family. In which eight women are followed in turn; before seeing them in the final sequence, for the first time reunited, in the no longer metaphorical place to which they were predestined, the prison. The hellish sequence of daily adversities that the film's protagonists are confronted with never degenerates into melodrama: because of the authenticity, the curiosity of Jafar Panahi's gaze. The camera, but also the skilful screenplay manage to be of a documentary truth; at the same time, to isolate characters without a past confronted with a crescendo of apparently normal adversities. But which turn into a greater threat, yet occult, with mysterious motivations. And therefore not only aberrant, but also immutable and eternal.

As long as the film manages to remain miraculously poised between these two irreconcilable poles, reality and abstraction, DAYEREH feeds on great emotional strength. Less, starting with what increasingly takes on the conventional appearance of a third, fourth episode: the arrival of a more written and thought-out dramatic construction (the mother forced to abandon her little daughter, the prostitute and the vulgarity of the militia), of the suspicion of a process that somewhat robs the film of the beautiful ease of the opening part.

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