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LA SPOSA TURCA
(GEGEN DIE WAND)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 25 gennaio 2005
 
di Fatih Akin,con Birol Unel, Sibel Kekilli, Güven Kirac (Germania, 2003)
 
La sposa turca, girato ad Amburgo e Istambul da un regista tedesco di origini turche: come non immaginare il solito, encomiabile, ecumenizzabile, globalizzabile manifesto, più o meno folcloristico, più o meno tragicomico, alla ormai insopportabile maniera (per intenderci, alla IL MIO GROSSO GRASSO MATRIMONIO GRECO, alla MATRIMONI E PREGIUDIZI) sulle unioni multietniche?

Niente di tutto ciò. LA SPOSA TURCA è un film insolito ma vero, feroce ma tenero, cinico ma appassionato. Affondato, senza l'ombra di un compromesso nella realtà socio-economica del nostro tempo e delle problematiche che la affliggono. Ma disponibile ad ogni istante ad aprirsi ai paesaggi psicologici e poetici dell'intimo, alle risonanze di una specie di romanticismo che potremmo definire postmoderno nelle quali si muovono, spesso travolti, eppure mai domi, i suoi straordinari personaggi.

Il matrimonio bianco che s'inventa la ventenne Sibel (Sibel Kekilli, viso di madonna bizantina, determinazione da amazzone urbana, magnifica rivelazione che da sola vale la visione del film) per sfuggire all'oppressione dell'integralismo famigliare con il quarantenne compatriota Cahit, più loser che punk, più fragile che sovversivo, segue cammini eventualmente prevedibili. I due scopano in dissacrante allegria con tutti fuorché tra loro stessi (ed è una delle parti più felici del film): finiranno per desiderarsi, sempre frenati dal timore di inceppare una meccanica perversa ma efficace, ma finiranno inevitabilmente per amarsi.

Ma le nostre certezze, peraltro già minate dall'eccentricità del tono, si fermano a questo punto. Poiché tutto, in LA SPOSA TURCA, si costruirà sui contrasti, siano essi quelli paradossali cari alla commedia umoristica, o quelli più cupi del melodramma sociale (non caso si pensa a TUTTI GLI ALTRI SI CHIAMANO ALI , di Fassbinder). Sui i rapporti fra la fragile e sensibile Sibel, donna e per di più mussulmana, con i suoi i concetti tutti maschili sulla libertà sessuale, la sua apertura cocciuta alla vita; e olocale sommerso dai cocci di bottiglia, dall'esistenza distrutta nella propria deriva ai margini del solito benessere consumistico.

Realismo socio economico, trasgressione e protesta: ma anche un lirismo melodrammatico che Fatih Akin insegue nelle proprie accentuazioni espressive, i primissimi piani, la presenza della musica, l'attenzione agli ambienti e alla variazioni cromatiche, verso tentazioni quasi da horror sadomasochista in una Istambul crepuscolare della seconda parte, dai destini peraltro più convenzionali nei confronti della libertà irrispettosa della prima.


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