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IL GRANDE SILENZIO
(DIE GROSSE STILLE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 25 aprile 2006
 
di Philippe Gröning, documentario (Germania, 2005)
 
IL GRANDE SILENZIO non è, o non è soltanto un film religioso; forse anche per questo è un piccolo, straordinario miracolo. Recluso per mesi con i monaci della Grande Chartreuse che per la prima volta apriva le sue porte, per quattro mesi in solitudine con la propria cinepresa, Philippe Gröning ha girato un film (coprodotto con notevole intuizione dalla nostra Ventura Film) di quasi tre ore: ma dal quale non si vorrebbe mai uscire. Cronaca, dapprima, di un mondo sconosciuto, le regole, la disciplina; ma pure il pasto, l'orto, il barbiere, il sarto. L'osservazione, e già la consolazione offerta dal gesto quotidiano. Quindi il viaggio, sempre più affascinante, da pacato thriller dell'anima, che dallo sguardo minuzioso sulla presenza fisica prende il largo verso un'esperienza sempre più spirituale. Con quella manciata di dialoghi, l'eco dei canti gregoriani, lo scandire dei rituali che sconfina in un universo che credevamo perso per sempre, quello del silenzio.

La materia e lo spirito, il documento e il misticismo, l'infinitamente piccolo e l'infinità del cosmo. Parole importanti, che il rigore, l'umiltà e l'emozione del regista tedesco traducono in una respirazione squisitamente cinematografica: in un'alternanza sapiente fra piani di astrazione mistica e quelli di realismo documentario. Le stelle che attraversano il cielo: pura fantasmagoria cosmica che si dissacra all'interno dell'annaffiatoio che sgocciola nell'orto. Materia esaltata da un uso acuto dell'alta definizione: che esaspera i dettagli fortissimi delle trame dei tessuti o delle foglie. Dettagli che nutrono il minimalismo degli avvenimenti, dettagli prosaici, una rasatura ripresa in primissimo piano. Dettagli che isolano l'elemento straniante ed infine mistico.

Ricorrenze cicliche che imprimono al film una sua cadenza, un cammino lungo il quale il film organizza una sua progressione drammatica. Quasi che il fotogramma cinematografico, con i suoi attributi specifici, rappresentasse ognuno degli infiniti scalini che conducono dalla materia allo spirito. Dalla miseria in carne ed ossa come incollarsi la suola di una scarpa, al segno che si fa metafisico: come in quell'indimenticabile ruzzolare, che dico, confondersi ed infine sublimarsi dei monaci giocherelloni nell'infinito delle montagne innevate.


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