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LA VITA DEGLI ALTRI
(DAS LEBEN DER ANDEREN)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 marzo 2007
 
di Florian Henckel von Donnersmarck, con Thomas Thieme, Martina Gedeck, Ulrich Mühe (Germania, 2006)
 

Thriller psicologico, melodramma sentimentale, suspense di spionaggio, LA VITA DEGLI ALTRI (Premio del miglior film agli European Awrads 2006, emozione in Piazza a Locarno) rappresenta uno degli esordi cinematografici più significativi degli ultimi anni; confermando, nella sua impeccabile fusione fra denuncia politica, riflessione umanistica e spettacolo avvincente la ripresa in atto del cinema tedesco. Nella Berlino –Est del 1984 un meticoloso ed implacabile agente della Stasi, la famigerata polizia di stato, è incaricato di spiare ventiquattro ore su ventiquattro una scrittore di successo apparentemente ligio al regime, la sua compagna e le sue frequentazioni. Ulrich Mühe, automa dallo sguardo glaciale, l'alieno da ogni emozione che ci aveva già colpito in FUNNY GAMES di Haneke non promette niente che non sia terrificante: ma le sue intercettazioni lo introducono un universo cosi distante dalla solitudine allucinante della propria esistenza…


L'interesse del film è dovuto in parte all'evoluzione di una sceneggiatura di grande rigore ed intelligenza. Dapprima, quasi un documentario, immediato, preciso, impressionante sui metodi e ancor più sulla barbara filosofia disumanizzante della polizia segreta. Quindi, una messa in parallelo, sempre più sconvolgente, di come la violenza pubblica e la duplicità politica di un regime finisca per coinvolgere inesorabilmente il privato più solido; trasferendo la propria degenerazione in altra follia, destinata a scardinare l'intimità delle coscienze. Tensione, coinvolgimento dello spettatore subentrano a quel punto; ma mai per scadere in banale strumentalizzazione, in scontato manicheismo. Al contrario, per caricare il film di una ulteriore, commovente energia umanistica. A ricentrarlo sul personaggio che forse meno ti aspetti; indirizzando cosi il film nel senso di una meditazione delicata sul singolo, anche del più impotente, quando si tratta di agire fra il bene ed il male. Quando una propria integrità, a dispetto delle più crudeli e calcolate manipolazioni finisce per reagire non solo agli stimoli dei propri sentimenti di colpevolezza; ma ad una compassione che nasce dell'osservazione dell'amore, dell'onestà morale, del gusto della bellezza e della frequentazione dell'arte.


Nella stilizzazione degli ambienti, delle dominanti cromatiche, dell'intervento registico in genere la perfetta resa degli attori, la tensione della sceneggiatura del poco più che trentenne ed esordiente Florian Henckel von Donnersmarck è infine tradotta in un contenitore formale di assoluta coerenza. Gli spazi (autentici) degli interrogatori “scientifici” della Stasi, le abitazioni in attesa di essere divorate dall'ingranaggio infernale, gli esterni dai quali ogni forma di vita sembra risucchiata, traducono la volontà del regista di eliminare ogni fronzolo pittoresco che banalizzi il dramma delle psicologie.


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