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VENERE IN PELLICCIA
(LA VENUS A LA FOURRURE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 dicembre 2013
 
di Roman Polanski, con Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric (Francia-Polonia, 2013)
 
A 80 anni Roman Polanski realizza uno dei suoi film più belli; uno nei quali la sua arte della regia risalta in maniera più raffinata. Succede non solo grazie a un'energia creativa che sembra esaltarsi, epurandosi sempre più (vedi la trascendenza del thriller L'UOMO NELL'OMBRA, nel 2010); ma, quasi paradossalmente, succede nel suo primo film a due personaggi, interamente girato all'interno dell'apparente costrizione di una scena teatrale.

Senza riandare a superati litigi, forse è il caso di dirlo: VENERE IN PELLICCIA è tutto tranne che teatro filmato. Malgrado la storia che va raccontando, le porte di un vecchio teatro parigino che si spalancano, la cinepresa che s'introduce all'interno (in un movimento di macchina di grande bellezza) per non più uscirne, assieme a Vanda: fino a inquadrare l'esausto Thomas, il regista al termine di una giornata di audizioni per il suo adattamento teatrale di un testo del 1870 di Sacher-Masoch.

Vanda rappresenta l'opposto di ciò che sta cercando Thomas, volgare e petulante com'è, masticando gomma e praticamente in reggicalze, eventualmente erotizzante ma in difficoltà nel nascondere (ammesso che se ne preoccupi) la cellulite. Chissà come (è il primo degli impercettibili dettagli misteriosi che ribalteranno l'humour e l'imbarazzo della situazione in delicato surrealismo), Vanda possiede il testo integrale alla perfezione,; addirittura si permette di correggere l'illuminazione del palcoscenico. Altro segno della manipolazion, il vero tema che Polanski ha esaltato con miracolosa minuzia dalla pièce di David Ives trionfatrice a Broadway.

Vanda s'impossessa del testo e, progressivamente, della situazione, l'audizione si trasforma in ripetizione: al regista non rimane che farsi attore (Mathieu Amalric, forse il più grande della sua generazione in Francia), il rapporto di forza si capovolgerà nel corso di una notte intera. I ruoli s'invertono, il dominatore si fa schiavo (consenziente, ci mancherebbe, siamo alla fonte, anche se continuamente divertita del sadomasochismo!), la realtà e la fantasia s'intrecciano, contraddicono, coniugano fino a confondersi nel meraviglioso.

L'arte di Polanski consiste allora nel rendere palpabile, grazie alla sensibilissima manipolazione della propria osservazione registica, alla malizia miracolosa dei dialoghi (in contrappunto continuo tra lo splendido rigore classico del testo originale e l'improvviso, godibilissimo interloquire di quello disinvoltamente contemporaneo), al rapporto con l'ambiente-contenitore (un western di cartapesta con tanto di cactus fallici), l'eterno confronto di potere fra i sessi. Con quanto di umoristico, di freudiano, di rivendicatore e, naturalmente, di infinitamente sensuale questo comporta.

Spirale delirante e metafisica più che femminista, posseduta dalla stupefacente interpretazione di Emmanuelle Seigner che trova qui il ruolo della propria vita: diretta da un marito che ricalca, fisicamente e fino all'ambiguità (ancora grazie, Freud) l'attore in via di svirilizzazione che la fronteggia. Qualche simbologia troppo evidente, qualche sospetto di programmata strumentalizzazione possono allora anche affiorare: ma è la magistrale affinatezza dello sguardo di Polanski, il suo potere di governare e significare ogni angolo dell'inquadratura a cavalcare sovrano la legge dell'immaginazione.


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