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IL PASSATO
(LE PASSE')
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 23 dicembre 2013
 
di Asghar Farhadi, con Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa (Francia-Iran, 2013)
 

In pochi film (il premonitore A PROPOSITO DI ELLY nel 2009, UNA SEPARAZIONE, 2011, immenso successo di critica e di pubblico, oro a Berlino e quindi Oscar) l'iraniano Asghar Farhadi è diventato uno dei più grandi cineasti in circolazione. Ora, per la prima volta, ha girato all'estero, in Francia, rinunciando a un richiamo che in parte poteva anche essere dovuto all'esotismo; affinando, al contrario, il suo sguardo antropologico. Pochi cineasti al mondo possiedono attualmente la chiave per penetrare nei segreti dell'animo umano, per analizzarli minuziosamente come l'autore di Il passato. Forse nessuno costruisce sceneggiature equivalenti in lucidità e penetrazione dei dialoghi, analisi e comprensione delle situazioni, partecipazione umana che non esclude la leggerezza; per poi riuscire a tradurle in una concisione dell'illustrazione che si risolve in magistrale condivisione con gli attori.


Ahmad è stato sposato con Marie-Anne, prima di ritornare in Iran; quattro anni dopo è di ritorno a Parigi per firmare gli atti del divorzio. Ritrova le due figlie della donna nate da un suo matrimonio precedente, la piccola Lea e l'adolescente in piena crisi Lucie; con loro gioca ormai Fouad, che ha cinque anni ed è il figlio di Samir, il nuovo compagno di Marie-Anne. In questo nodo di relazioni, banale, probabile e al tempo stesso potenzialmente esplosivo Fahradi indaga nell'intimo più profondo dei personaggi. Non tanto per spiegarli in psicologia spicciola, ma per sondarne le contraddizioni rivelatrici che si nascondono dietro l'apparenza dei comportamenti, le ombre lasciate dal passato che da il titolo al film.


I sensi di colpa di ognuno, le frustrazioni, le gelosie: quelle che il protagonista (splendido Ali Mosaffa che Farhadi si è portato dall'Iran) affronta perché mutino in assunzione delle proprie responsabilità. Resa con infinita verità, questa esigenza è però lungi da risolvere le cose: tanto che, come in certo cinema di Bunuel, è proprio la fatica dell'essere giusto, di richiamarsi finalmente al vero che conduce a successivi malintesi. Tutti hanno le loro ragioni, ma quant'è difficile decidere chi abbia torto, scrivevamo a proposito di UNA SEPARAZIONE. Trasposta nel microcosmo del quartiere parigino la cosa si ripete e con essa quella squisita caratteristica dell'iraniano di non cadere nel tranello riduttivo delle spiegazioni.


Come negli incastri delle bambole russe le vicende si esauriscono e si rilanciano, in una manipolazione dello spettatore che finisce per creare una tensione di quelle che oggi amiamo definire da thriller dell'anima. Nel modo tutto suo di far vivere il presente che vagamente ricorda quello di Cassavetes o di Pialat, l'attimo privilegiato di Farhadi parte dalla mente ma colpisce direttamente al cuore. Come in quell'arrivo muto all'aeroporto, piano sequenza mirabile visto attraverso la vetrata degli sbarchi; o l'indimenticabile spiegazione fra padre e figlio sul marciapiede della metropolitana.


Un'abitazione, un giardino, un cancello; fuori, la ferrovia, un angolo di quartiere, una farmacia, una lavanderia. In così poco spazio, tutta la gamma della commedia umana. Troppo scritta, calcolata al fine d'inserirci di forza in una meccanica? Forse, se non conducesse i suoi meravigliosi attori, e noi con loro, nelle spire contraddittorie del passato.


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