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HO AFFITTATO UN KILLER
(I HIRED A CONTRACT KILLER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 13 ottobre 1991
 
di Aki Kaurismäki, con Jean-Pierre Léaud, Margi Clarke, Serge Reggiani (Finlandia, 1990)
 
Impiegato da 15 anni in un ufficio più squinternato che kafkiano della burocrazia di Sua Maestà, Henri è licenziato sui due piedi. Non per aver superato in neghittosità i suoi assonnati colleghi, anzi. Ma in quanto immigrato francese: si comincia sempre dagli stranieri quando bisogna ristrutturare, soprattutto se vivono a parte, senza integrarsi nel gruppo, dei diversi insomma. A Jean-Pierre Léaud (inimitabile: che ha sostituito la scanzonata assurdità lunare dei suoi film con Truffaut con una maschera di allucinata, non necessariamente rassegnata lucidità), che già non aveva molte ragioni per tirare a campare, non rimane che una soluzione. Farla finita: ma occorre pur sempre che il gancio della corda tenga al soffitto, la bombola del gas non si svuoti al momento giusto. O, all'istante ancor più prezioso, non compaia Biancaneve, sotto le deliziosi vesti attuali della bionda più slavata di Liverpool (LETTER TO BRESHNEV), Margi Clarke...

Nel cinema preciso, meditato, esattamente riferito di Aki Kaurismäki non accade nulla a caso: nemmeno che sui titoli di testa appaia una dedica a Michael Powell. Perché, proprio come in quello del maestro britannico autore de IL LADRO DI BAGDAD e dei RACCONTI DI HOFFMAN, in quello del finlandese convivono due anime: quella del favolista e quella del realista. Quella del poeta che si rifugia volentieri nel sogno, nel fantastico, nel thriller; ma anche quella dell'osservatore del mondo che ci circonda, che non esita a dire la sua sulla condizione sociale ed esistenziale di chi gli vive accanto.

Con la sua tipica attenzione ai minimi dettagli, ma anche con inimitabile semplicità, quasi elementarità, Kaurismäki impiega la prima mezz'ora del film a darci il maggior numero di informazioni su delle vite assolutamente prive di dettagli (esterni) da osservare. Con una conseguenza: che il suo sguardo, trattenuto da quella sorta di diga oppostagli dalla chiusura esterna dei personaggi, non può in seguito che proiettarsi all'interno di quei medesimi individui. È un realismo, il suo, del tutto particolare: asciutto, austero, monocorde (i colori, i suoni, i gesti, i piani fissi della cinepresa), astratto senza essere distratto, non dissimile da quello di un cineasta così difficile da imitare, Robert Bresson.

Poi, progressivamente, subentra l'altro elemento, l'humour nero (ricordate Powell?), la favola, il colore, la musica, la sorpresa di una svolta nella sceneggiatura (l'effetto comico quando si attende il dramma, il ridicolo che si accosta alla tragedia, la tenerezza che sfiora la disperazione). È come se nel rigore delle strutture bressoniane entrasse la trasgressione di Almodovar: perché le favole di un finlandese amatore di birra che va a girare nella realtà sociale dei dock di Londra negli anni novanta non possono allora che trasformarsi in fotoromanzi, in melodrammi al tempo stesso assurdi e tremendamente reali.

Un colpo di bacchetta magica, quello del finlandese, affascinante ad azzardato: perché mescolare le carte a quel modo, fondere la tragedia di LA FIAMMIFERAIA all'umorismo di LENINGRAD COWBOYS o di ARIEL non è un giochetto. Il rischio è quello del manierismo, dell'eccesso di dimostrazione, dell'artificiosità: come sempre finora, il sorprendente finlandese ne esce (quasi) indenne. Ma non a caso:grazie all'affetto per i suoi personaggi (anche per il killer, certo, quello che ingaggia per uccidere sé stesso... ), alla sua ironia, alla sua rabbia che sembra sconfinare in una sorta di perversione. A quel suo modo di integrarsi allo squallore della periferia londinese, cogliendone al tempo stesso un suo paradossale potere straniante, una sua commovente vitalità. Grazie al suo modo - forse ancora perfettibile - di pensare, e poi di guardare in cinema.


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