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LE ONDE DEL DESTINO
(BREAKING THE WAVES)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 maggio 1996
 
di Lars von Trier, con Emily Watson, Stellan Skarsgard, Katrin Cartlidge, Jean-Marc Barr (Danimarca, 1996)
 
Non lasciatevi ingannare. Questo è un melodramma sentimentale, una storia d'amore e di follia, di fede e di trasgressione, di misticismo e di sensualità. Un film nordico: girato da qualcuno che si è nutrito di Dreyer e di Bergman, degli scontri cupi fra esigenza di spiritualità e repressione religiosa, dell'ansia di abbandonarsi a quell'incontro fisico - con il prossimo, con la natura - che la tradizione, la cultura, l'ambiente medesimo concorrevano a negare. Ma è soprattutto -a somiglianza della sua straordinaria protagonista, l'esordiente Emily Watson - un film indimenticabile.

Pare incredibile che a filmare questa storia sia stato l'autore di film ammirevolmente padroneggiati, quanto glaciali come L'ELEMENTO DEL CRIMINE o EUROPA. Perché se è vero che BREAKING THE WAVES è una storia di fede (nell'amore, nella comunione mistica, nell'amicizia) è altrettanto evidente che la ragione del suo impressionante impatto emotivo, della sua credibilità stessa è contenuta nell'abbandono totale, nell'assenza di freni inibitori, nella fiducia insopprimibile del suo autore nei confronti del proprio strumento, il linguaggio cinematografico. Allo spettatore del film non si chiede di credere ai miracoli: ma di partecipare a questa adesione quasi sconsiderata (ma sempre commossa, fervente e tenera) di un cineasta nei confronti dei propri personaggi. E del loro destino, che ha deciso di assumere oltre ogni limite.

Lars von Trier non sbarca infatti in una landa flagellata dall'Oceano del litorale scozzese per "raccontarci" la vicenda di Bess McNeill. Dell'amore immenso ed immediato di una giovane fragile ed innocente per Jan, l'operaio dalle spalle larghe e dal sorriso fiducioso che trivella sulla piattaforma petrolifera. Dell'incidente, che glielo rende dalle insopportabili assenze in mare: ma paralizzato, probabilmente per sempre. Del suo sacrificio, per ridargli la vita. Sacrificio totale, in una sorta di comunione: con un Dio tutto suo, con il quale dialoga a colpi di un botta e risposta che gli uomini di scienza definirebbero soltanto schizofrenico. E con un signore degli abissi, forse creato ad arte da una volontà imperscrutabile: in tutt'altro genere di sfida, quella che la morale ed i dogmi impietosi di altri uomini definirebbero soltanto perversa e diabolica.

Non si limita, l'autore, ad illustrarci questa folle, appassionata rincorsa nella vertigine dell'amore e della devozione. Per un fatto semplice fatto: che - spettatori distaccati - mai l'avremmo condivisa. Allora, al contrario, egli annulla letteralmente tutto quanto ci separa dalla rappresentazione: ogni sguardo critico, ogni interpretazione analitica. Incolla l'occhio della cinepresa alla sua incredibile protagonista: la rende partecipe, ne ruba gli sguardi, coglie i minimi soprassalti, con uno stile che si potrebbe definire da sopraffino reportage televisivo. Cinepresa a spalla, primissimi piani che stentano ad essere contenuti nelle pure immense inquadrature del Cinemascope. Movimenti liberissimi, all'inizio quasi fastidiosi, ma che sembrano abbracciare con una libertà sempre più inarrestabile l'indicibile vicenda che si appresta a raccontarci.

La grandezza, la stranezza, la commozione e la poesia di BREAKING THE WAVES nascono da una serie di contraddizioni. Prima fra tutte, quella fra una storia fantastica di mistero e di passione, di religione laica e di felicità liberata (quella prima mezz'ora straordinaria: dove dalle danze delle nozze ai primi incontri di amore, dalla serenità amorosa alla lacerazione del distacco ci si accompagna ai due protagonisti in un'intimità inimmaginabile) ed un modo di filmare, di osservare gli uomini e l'ambiente assolutamente aderente alla realtà. Quella fra uno stile quasi documentaristico, ed un soggetto che si fa vieppiù fantastico. Una dimensione impressionata sempre più realisticamente: ma che sconfina in sembianze sempre più espressionistiche.

Tutto ciò potrebbe essere il risultato di una scommessa. Ma se il film funziona, se il pubblico partecipa invece con grande emozione ad un dramma nordico di due ore e mezza è per l'estrema, istintiva naturalezza dello sguardo di von Trier. Per la fluidità, l'assenza di ogni calcolo. La fede nella propria storia, nei propri personaggi, nel proprio modo di avvolgerli in uno sguardo straordinariamente libero. Di penetrare assieme a loro in quegli ambienti cosi angusti: per condividerne cosi i destini più intimi. E di uscire nell'immensità di quei paesaggi cosi assoluti, per confrontarsi con l'intransigenza della natura. Cosi simile a quella chiesa senza campane, a quel prete ormai incapace di chinarsi, per soccorrere una giovane lapidata dai ragazzi.

Per il suo modo di filmare i suoi grandi attori, Emily Watson, naturalmente, come tutti gli altri. Per come incontra Bess: per come l'accompagna, oltre che nel suo straordinario destino, nel più profondo della nostra memoria.


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