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LETTERE DI UNO SCONOSCIUTO
(COMING HOME)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 9 novembre 2015
 
di Zhang Yimou, con Gong Li, Dao Ming Chen, Huiwen Zhang (Cina, 2014)
 
Raffinato, sofisticato manipolatore di ritratti avvolti in forme squisite dai tempi di LANTERNE ROSSE (1991), Zhang Yimou non ha mai cessato di rinnegare la bellezza indicibile delle immagini che lo hanno reso celebre. Così come non ha mai rinunciato a fondere la Storia con il ritratto dei suoi protagonisti, immergendovi i melodrammi che costituiscono il secondo aspetto della sua poetica, le cronache neorealistiche ispirate ai tempi della Rivoluzione Culturale (della quale, tra l'altro, egli stesso è stato vittima).

Sono vicende nelle quali il ricatto psicologico, oltre che materiale del potere agisce sulla parte più segreta degli individui, e sulla fragilità degli equilibri famigliari. Succede nelle opere realiste e contemporanee del regista cinese; già dal 1992 del capolavoro LA STORIA DI QIU JU, come nel più modesto, malgrado il Leone veneziano, NON UNO DI MENO (1999); e, più di recente, nell'idillio adolescenziale di UNDER THE HAWTHORN TREE.

Zhang si ripete in COMING HOME: mentre il padre è recluso da tempo a causa di attività controrivoluzionarie, mentre la madre può ancora svolgere l'attività d'insegnante, anche se ovviamente sotto sorveglianza, alla giovanissima Dandan viene inflitta l'atrocità di un dilemma. Rinunciare per sempre all'agognata carriera di prima danzatrice, oppure denunciare la presenza del padre, evaso dal campo di rieducazione. Questi, ripreso, verrà rilasciato dieci anni dopo, riabilitato al termine della Rivoluzione; ma non vedrà attenuati i traumi irreversibili provocati dalla violenza politica. Sconvolta dall'accaduto la moglie, interpretata da una commossa Gong Li, ha cancellato il proprio passato e non lo riconosce più.

COMING HOME è un melodramma dai sapori antichi. Più che quelli fiammeggianti di Douglas Sirk negli Anni Cinquanta ricorda l'attenzione tenera, ai confini del sentimentalismo, di alcuni di Vittorio De Sica; e non a caso, sottolineata dalle varie fasi del trucco, un'attrice spesso citata fra le più belle del mondo come Gong Li ricorda curiosamene nel film un'altra star, Sophia Loren. Dopo una prima parte condotta nel consueto virtuosismo registico di Zhang (l'aggressività dinamica e cromatica nelle sequenze dei balletti politici, il montaggio fra i treni che s'incrociano, il fluire dei passanti nella stazione, quasi un coro angosciato al mancato incontro fra i coniugi) il regista inizia un processo di sottrazione espressiva: meno dinamica, meno luce, meno colore. Più primi piani dolenti, e ritmi allentati: in una volontà (un po' tanto rincorsa, forse non sempre congeniale) di tenera partecipazione al dramma. Anche se è l'anima più preziosa del discorso che s'impone, la perversione assoluta del potere che non si accontenta della violenza fisica. Ma affonda vieppiù le ferite nel profondo della vittima e di una società tutta; cancellandone le memorie, e le misere convinzioni residue.


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