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LA FORESTA DEI PUGNALI VOLANTI
(SHI MIAN MAI FU)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 febbraio 2005
 
di Zhang Yimou, con Zhang Ziyi,Takeshi Kaneshiro, Andy Lau (Cina, 2004)
 
Troppo bello per essere vero ? E' dall'apparizione dei primi, immediatamente sontuosi SORGO ROSSO, JU DOU o LANTERNE ROSSE che ci si incanta, prima di interrogarci, sulle immagini meravigliose dell'ex direttore della fotografia di Chen Kaige. Dopo la brillante ostentazione di HERO, Zhang Yimou firma il suo secondo film di arti marziali, il mitico wuxia pian della tradizione cinese; e la storia, puntualmente, si ripete. Per alcuni, la bellezza indicibile che accompagna ogni sequenza di LA FORESTA DEI PUGNALI VOLANTI altro non sarebbe che la traduzione fredda di un compiaciuto virtuosismo formale. Peggio, di un amalgama furbo tra diversi generi alla moda presso le platee occidentali, da LA TIGRE E IL DRAGONE a ZATOICHI, da KILL BILL ai melodrammi musicali alla MOULIN ROUGE. Simbolismo cromatico, accademia, sentimentalismo: nei soliti lussuosi peccati dovrebbe recidivare la storia di Mei (sublime Zhang Zihy), la ballerina cieca che i due capitani dell'Impero (i non meno affascinanti Takeshi Kaneshiro, taiwanese, e Andy Lau, idolo di Hong-Kong) sospettano di appartenere alla setta rivoluzionaria dei Pugnali Volanti. E che inseguono ed accompagnano con uno stratagemma; prima di caderne inevitabilmente innamorati.

Il film inizia con una sequenza che il cinema ricorderà fra le sue coreografie più impregnate di grazia e meraviglia : la danza di Zhang Ziyi (una delle pochissime sopravvissute di una specie in via di estinzione, la ballerina-attrice) nella casa di piacere, avvolta in una spirale infinita di lingue di tessuto che schiaffeggiano ritmicamente la serie di tamburi schierati tutto attorno. Prosegue, come un trio alla JULES ET JIM che si fosse avventurato in una road-movie incantata. Un bagno della bella in una pozza magica fra le felci; prospettive vieppiù fantastiche, stilizzate fino al surrealismo, nelle foreste di bambù; itinerari nell'evoluzione delle tinte del paesaggio infuocato dall'autunno filmato dal grande Zhao Xiaoding che trasformano il mirabolante divertimento coreografico nel lirismo lancinante del melodramma passionale. E termina in una straordinaria tempesta di neve (effettivamente sopraggiunta durante le riprese in Ucraina) dove quella passione si sublima sopra le righe, in un bagno di sangue che ricorda, in chiave postmoderna, quello con Jennifer Jones e Gregory Peck in DUELLO AL SOLE di King Vidor.

Troppi riferimenti, per un cinema al quale invidiamo la coerenza culturale, la purezza d'ispirazione ormai assente nel mercantilismo globalizzante di quello occidentale? Il dubbio potrebbe sussistere se LA FORESTA DEI PUGNALI VOLANTI volesse trascrivere l'epopea eroica di un'epoca mitica; o l'omaggio rigoroso alla disciplina culturale che le arti marziali rappresentano per l'Oriente. Ma il cinema di Zhang Yimou insegue altri sogni; che il suo portentoso talento formale non mortifica al livello di chimere. Come dichiara d'altra parte lui stesso (“ l'immagine è per me fondamentale: e quindi costruisco le mie drammaturgie in funzione delle immagini che mi vengono alla mente”), il magistero pittorico tende a creare, all'interno del racconto, quasi una seconda struttura. Una raffinata costruzione formale, una progressione cromatica, un seguito di invenzioni spaziali, sonore che conducono inevitabilmente all'astrazione. Perché all'astrazione? Perché è in quella dimensione che tutte le energie della passione, tutte le tensioni verso l'assoluto dei sentimenti riescono ad esprimersi compiutamente. L'eroina è cieca: e quindi l'inizio del film è tutto costruito sulle sensazioni, le intuizioni che nascono dall'astrazione del segno. Ma la ragazza è pure spadaccina, e di quelle micidiali: l'inganno, la mistificazione sono allora resi possibili, addirittura credibili, proprio da quelle manipolazioni che annullano i confini fra realtà e apparenza, nella fantasia della dimensione poetica. I pugnali volano, come nelle leggende: ma è la cinepresa stessa a volare con essi, in soggettiva.

Freddo e compiaciuto, nella propria facoltà quasi impensabile di far suo il bello, il film di Zhang Yimou potrebbe anche esserlo: se non fosse per il piacere, la sensualità evidente che anima i rapporti fra i personaggi; quelli che legano la drammaturgia all'ambiente. A tutta quella sfrontata architettura, portentosa nel proprio splendore.


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