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LA CITTA' PROIBITA
(MAN CHENG JIN DAI HUANG JIN JIA)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 19 settembre 2007
 
di Zhang Yimou, con Gong Li, Chow Yun-Fat, Jay Chou, Liu Ye, Ni Dahong, Chen Jin, Li Man (Cina, 2006)
 
Magistrale, quasi troppo. Come definire altrimenti la terza parte di un trittico già eccezionale, formato da HERO (2002) e da LA FORESTA DEI PUGNALI VOLANTI, e con la quale Zhang Yimou conclude il proprio omaggio al mitico wuxia pan, le arti marziali della tradizione cinese?

La storia di LA CITTA' PROIBITA potrebbe non contare più di tanto: se non fosse legittimo il sospetto che quel decimo secolo della dinastia Tang non sia del tutto estraneo ai giochi di potere attuali. A qualche dispetto, perlomeno, nei confronti di una censura sempre micidiale; ma che, grazie al proprio statuto di somma star internazionale il nostro può permettersi di andare a solleticare. Ecco allora l'affresco farsi da storico a politico: adattando un testo teatrale insospettabile dagli anni Trenta l'autore si copre alle spalle. Per poi spalancare, con tutta l'energia di uno sfarzo indicibile, con l'immaginazione sconfinata che gli permettono gli effetti speciali, le porte di un museo degli orrori. Al suo interno, il classico nodo di vipere da tragedia greca, l'avviluppo di intrighi, incesti e omicidi a catena. Destinati a sciogliersi proprio durante la festa dei Crisantemi, il Chong Yang, paradossalmente dedicato alla famiglia: quando l'imperatore dovrà vedersela con l'imperatrice che lui sta lentamente avvelenando, mentre lei va a letto da tre anni con il principe ereditario. Ed i tre figli si sbranano fra di loro per i tradizionali problemi di successione.

Si pensa allora a NOTORIUS, per la tensione hitchcockiana provocata dall'avvelenamento progressivo, agli affreschi dell'ultimo Kurosawa quando giungerà il tempo delle battaglie, all'Eisenstein di IVAN IL TERRIBILE quando il dedalo gotico dei labirinti di palazzo finisce per risolversi nelle prospettive immense degli spostamenti di massa. Ma se il melodramma intimista, con i suoi decolleté ostentati che rimandano pure loro ai nostri tempi si carica sempre più di vere e proprie cadenze shakespeariane non è tanto per l'intrigo; non soltanto per quell'indagine negli inferni dell'animo umano. Piuttosto, per l'impatto dell'intervento espressivo, formidabile, a modo suo altrettanto mostruoso delle vicende narrate: tutto giocato sul contrasto fra l'obbrobrio tenebroso del contenuto e l'indicibile bellezza del contenitore. Fra la profusione degli ori, lo sfarzo delle sete, delle pietre preziose, del sangue versato e la spirale delle ombre destinate a divorarle. Fra gli spazi interni, claustrofobici nelle loro incredibili dissolvenze cromatiche, dove nascono le congiure e gli esterni, immensi, solcati dagli arcieri neri che discendono come pipistrelli da cieli plumbei per lanciarsi sul magma disumano delle armate.

Eccelsa manipolazione computerizzata, certo. Ma, sul giallo a perdita d'occhio dei crisantemi Zhang Yimou quelle masse umane digitali, quelle architetture esasperate, quelle prospettive demenziali riesce ad organizzarle secondo un'armonia sinfonica che non è gratuita, ma ideologicamente significativa.

Certo, malgrado la splendida e commovente maturità della carnalità di Gong Li (finalmente di ritorno con il compagno) che garantisce un'emozione più terra a terra al film, la sontuosa overdose estetica del film arrischia a tratti di appesantire, dopo averci strabiliato, la visione del film. Ma in un'epoca nella quale la banalizzazione inflazionata delle immagini minaccia di annientarle, e con loro il cinema, come non abbandonarsi ad una voluttà che l'ansia dell'Occidente sembra avere ormai perso?


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