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CENTRAL DO BRASIL Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 febbraio 1999
 
di Walter Salles, con Fernanda Montenegro, Marilia Pera, Vinicius de Oliveira (Brasile, 1998)
 
Sotto un cielo stinto che non è di certo quello delle cartoline dai tropici, dal marasma madido di miseria della stazione centrale di Rio fino ai villaggi perduti nel deserto del Sertao il viaggio di Dora, che scrive lettere per gli analfabeti. E quello di Josué, rimasto orfano sotto i suoi occhi, che la trascina alla ricerca di un padre più o meno improbabile. Uno sguardo tenero e commosso su una vicenda di quelle che piacevano ai maestri del neorealismo italiano; sul Brasile contemporaneo, la sua miseria, religione, furbizia e solidarietà, da parte di un cineasta che - si vede - proviene dalla scuola del documentario.

Verista malgrado qualche tentazione espressionista, comunque lontano da quegli slanci visionari alla Glauber Rocha che avevano reso indimenticabile il cinema del proprio paese, vicino ai sentimenti della gente, CENTRAL DO BRASIL piacerà alla gente. Cosi com'è piaciuto ai giurati dell'ultimo Festival di Berlino, che gli hanno un po' precipitosamente assegnato l'Orso d'oro; e cosi come non mancherà di piacere a quelli dell'Oscar imminente. Perché possiede tutti gli ingredienti adatti.

L'intelligenza, l'acuità, l'umanità della prima parte, di gran lunga la migliore del film. Quella girata alla stazione di San Paulo del titolo, dove la storia di Dora e Josué si alimenta -come nel cinema più valido - di ciò che capita sullo sfondo piuttosto che fra di loro: con i mestieri tipici dell'arte del tirare a campare, gli espedienti meschini e gli intrighi risaputi, i vagoni presi d'assalto. E quella sequenza agghiacciante perché emblematica, perché indoviniamo girata con la rapidità, la naturalezza con la quale si osserva il quotidiano che ci accompagna quando si finisce per assuefarsi: quando il ladruncolo che si è dato alla fuga fra i binari è raggiunto, e freddato da un paio di "vigilantes".

Poi, la forza di un'interpretazione, di una presenza che per imporsi non necessita di sottotitoli. È quella di Fernanda Montenegro, gloria nazionale, che si porta impresse tutte le rughe di uno di quei personaggi che si definiscono forti: la Dora che era insegnante ed ora scrive le lettere per gli analfabeti. Che si dimentica di spedirle ma non di tenersi i soldi dei francobolli. Che si prende cura dell'orfanello ma poi lo vende ai trafficanti internazionali per farsi la tele. Che riesce a riprenderselo con il piglio di una Gena Rowlands di Cassavetes per accompagnarlo nel suo viaggio ma poi s'illude (in un'altra dei momenti chiave) di potere ancora piacere al camionista di passaggio.

Ed, ancora: il ritmo ormai universalmente accettato della road-movie, il paesaggio sempre più desolato ma autentico che continua a sfilare, gli ostelli di una provvisorietà che finisce per essere rassicurante, proprio come quella dei personaggi che intravediamo nei soliti preziosi attimi fuggenti.

Infine, quando si tratta di (finire di) raccontare una storia, di farsi opera di finzione e non più di documento, quando il film si fa prolisso, ripetitivo e convenzionale, l'ingrediente indispensabile ad ogni portata oscarizzabile. Quella mistura di buonismo ecumenico, di miserabilismo sentimentale sulla quale si potrebbe discutere all'infinito se si tratti di autentico umanesimo. Oppure, di furbizia.


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