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IL CERCHIO PERFETTO
(SAVRASENI KRUG)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 25 settembre 1997
 
di Ademir Kenovic, con Mustafa Nadarevic, Almedin Leleta, Almir Podgorica (Bosnia, 1996)
Esistono dei film che si dovrebbero amare prima di ogni altro. Non per obbligo, morale o di qualsiasi altro genere. Ma per la loro urgenza, la loro purezza; quella che nasce da una generosità che relativizza ogni altra considerazione. IL CERCHIO PERFETTO è uno di questi film; e per queste sue caratteristiche rimane indelebile nella memoria dello spettatore.

È il primo film realizzato in Bosnia dopo la pace. Girato nel febbraio del 1996, qualche giorno "dopo", nella città che ricominciava a vivere, ma ancora immersa nelle macerie, con il coprifuoco alle undici di sera.

Era da quattro anni, dal 1962, che Kenovic pensava a questo film. Ed ha finito per scriverlo sotto il tiro degli sniper, nel tristemente celebre Holliday Inn, assieme ad una grande figura bosniaca, quel Abdulah Sidran poeta nazionale, autore dei due primi film di Kusturiça, TI RICORDI DI DORA BELL? e PAPÀ È IN VIAGGIO D'AFFARI.

Ma durante l'assedio di Sarajevo era probabilmente impossibile pensare ad un film di "finzione". Occorreva, oltre che sopravvivere, testimoniare: ed ecco allora nascere l'attività che ha reso celebre Kenovic, l'animazione del collettivo SAGA che riuscirà a far circolare nel mondo le testimonianze ormai leggendarie catturate in video dai cineasti di Sarajevo.

Nei suoi immensi meriti, nei suoi piuttosto insignificanti difetti LE CERCLE PARFAIT denuncia ad ogni istante le condizioni straordinarie, drammatiche ed umane, che hanno segnato la sua genesi. È un film, cioè, dalla finzione imperfetta: ma dalla realtà sublimata. E lascio cosi ad ognuno decidere quali delle due cose sia la più importante.

Storia di due orfani che vengono accolti a Sarajevo da un poeta più disperato che alcolizzato, e nella speranza di poterli espatriare, il film è tutto fuorché patetico. Perché i suoi elementi melodrammatici sono continuamente rivalorizzati da qualcosa che li trascende: lo sfondo, l'ambiente, la natura dei calcinacci come quella degli "attori" che fra quei calcinacci ci stanno ancora vivendo.

La recitazione, la messa in scena sono spesso elementari, didattiche. E quando il film abbandona il realismo per affrontare il fantastico, la divagazione felliniana (o kusturiçiana?: non per nulla lo sceneggiatore è il medesimo...) il film perde in ispirazione. Ma è la scelta di quelle facce, l'autenticità di quei luoghi, la sincerità di qualcuno che vive quegli avvenimenti sulla propria pelle a conferire al film un'emozione straordinaria. Non una sola scena del film non porta le stigmate del dramma vissuto; non una non ci ricorda che quelle case sventrate, quegli interni abbandonati in tutta fretta, quei tramway o quelle automobili abbandonate come carcasse inutili sono vere.

L'elementarità, la primordialità dei sentimenti espressi nobilita il melodramma. Non sono allora tanto i "buoni sentimenti" a far avanzare la drammaturgia: ma la geometria dei luoghi, i suoni che dettano la tensione.

Non a caso, alla fine, sopravvive il Poeta, colui che è portatore della Parola. Assieme a lui, il Muto, ovverossia la Memoria.


   Il film in Internet (Google)

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