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NO MAN'S LAND Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 14 novembre 2001
 
di Danis Tanovic, con Btranko Djuric, Rene Bitorajac, Filip Sovagovic, Georges Siatidis, Katrin Cartlidge (Bosnia, 2000)
 
Danis Tanovic sa di cosa parla. Perché è bosniaco, ha combattuto per il proprio Paese, quindi filmato documentari televisivi attorno a Sarajevo. L'inizio di NO MAN'S LAND è quello di un film di guerra: privo, come deve esserlo, di ogni concessione. Persi nella nebbia, quattro soldati dalle divise scombinate, avanzano imprecando, a tentoni, prima di fermarsi per attendere l'alba. Quando il sole si alza sulla splendida campagna circostante, c'è il tempo per una sigaretta, per una battuta di spirito; prima che giunga la prima pallottola, proprio nel mezzo della fronte. Prima che si scateni l'inferno dalle trincee sovrastanti.

Ma NO MAN'S LAND è anche il film di un'altra guerra. Altrettanto crudele, ed ancora più assurda; cosi assurda da diventare idiota, cosi idiota da apparire comica. E cosi comica, come succede dai tempi di Buster Keaton o di Charlot, da farsi esemplare; e motivo di riflessione. Perché se è forse normale che le trincee appartengano alle due etnie che si fronteggiano, già più insolito è il fatto che a rimanere intrappolati in quella terra di nessuno che da il titolo al film siano due compari – nemici di sventura, un serbo ed un bosniaco; sui quali, compatrioti più o meno coscienti continuano ad infierire. Più un terzo, bosniaco, morto presunto: in effetti, adagiato su una mina, destinata ad esplodere quando il “cadavere” verrà rimosso.

La feroce allegoria di Tanovic può allora incominciare ad organizzarsi: con una precisione ed un raziocinio che, una volta tanto, sono stati colti esattamente dalla giuria di Cannes, quando ha deciso di assegnare al film la Palma destinata alla miglior sceneggiatura. NO MAN'S LAND è tutto costruito sul principio della simmetria. Simmetria fra quel realismo crudo delle situazioni, colto fisicamente, a fior di pelle e di cinepresa; ed il grottesco surreale del discorso filosofico al quale tanta assurdità non può che condurre. Simmetria fra due colline, fra due fronti dai quali ufficiali sempre più perplessi si scrutano con il binocolo; fra due feriti, egualmente malandati, che a vicenda prenderanno il sopravvento uno sull'altro. Fra due compaesani che sfioreranno l'amicizia (“manca solo che ci scambiamo le carte da visita”), scopriranno di avere avuto la stessa bionda di Bagna Luka, quella dalle tette grosse cosi. Prima di ricominciare ad ammazzarsi.

Ma, ancora, simmetria fra l'infinitamente piccolo di quel teatrino di poveri cristi, e l'infinitamente grande della tragicomica pantomima che, allargandosi a raggiare sul filo perfetto dello sviluppo drammatico del film, coinvolgerà un numero di attori sempre maggiore attorno allo spettacolo guerresco. Giungono le forze volonterose ed impotenti dell'Onu, che parlano francese; ed incappano in posti di blocco dove si parla serbo. O bosniaco, o croato (la versione parzialmente doppiata perde leggermente di forza rispetto all'esilarante macedonia originale). Dagli stati maggiori ci si telefona svogliatamente in inglese; ma chi deve decidere sta a Ginevra, ad una delle solite conferenze sul cessate il fuoco. Sbarcano le CNN di mezzo mondo: e la grande Katrin Cartlidge dei film Mike Leigh può ritagliarsi un significativo siparietto nelle vesti dell'assatanata quanto lucida anchorwoman.

"Non importa chi ha cominciato, siamo tutti nella m…", finiscono per ammettere i tre della trappola: è la guerra, in tutta la demenza ed in tutto il suo fulgore spettacolare contemporaneo. La violenza vissuta sulla propria pelle dall'uomo semplice, scrutata con il binocolo dai graduati, osservata dai politici dal teleschermo. Imbonita e quindi svenduta dai media, ridicolizzata dalla buona coscienza dell'ONU. Se pensavamo tutto conoscere della situazione della ex-Jugoslavia, se in molti si erano premurati ad illustrarci la particolare animosità dei contendenti in causa, questo documentarista alla sua opera prima di finzione (!) è qui per ricordarci anche altri aspetti dell'animo, della cultura slava. La sua straordinaria vena grottesca, lo spessore sanguigno di una teatralità esasperata ma squisitamente umana. La lucidità del paradosso: “ Che casino, in Ruanda”, commenta dalla miseria della sua trincea il soldato sfogliando un giornale. Al Billy Wilder drammatico di L'ASSO NELLA MANICA, ma soprattutto al maestro della tragicommedia cinematografica di STALAG 17 non sarebbe dispiaciuta la crudele commedia dell'assurdo di NO MAN'S LAND.

Ma il balletto non è soltanto satirico. Perché il film sa evitare la trappola dell'umorismo nero; e non scade mai nella caricatura che stava dietro ad ogni angolo. Al contrario: sul filo di una fotografia che esalta il surrealismo agghiacciante delle situazioni, il film si ricompone come di dovere nel dramma. Evitando la faciloneria di un happy – end che avrebbe potuto tentare l'autore di un film a vocazione popolare e anche spettacolare come questo, NO MAN'S LAND termina benissimo: in una forte, disincantata metafora sull'impotenza alla quale sembrano sempre più condannati gli uomini di cosiddetta buona volontà. Soli, con la propria follia.


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