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IL NASTRO BIANCO
(DAS WEISSE BAND),
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 7 novembre 2009
 
di Michael Haneke, con Christian Friedel, Burghart Klaussner, Susanne Lothar, Ulrich Tukur, Leonie Benesch, Rainer Bock (Austria, 2009)
 
Da sempre, dalla scossa a Cannes 1997 quando FUNNY GAMES provocò una fuga da parte degli spettatori più sensibili, il cinema dell'austriaco Michael Haneke ha sondato, con una lucidità di scrittura che si è progressivamente rivelata magistrale nella propria intransigenza le origini della violenza, della colpa, del Male. Mai però, come in questo DAS WEISSE BAND che, dopo CACHE' si afferma come un capolavoro della maturità, questa riflessione ha abbandonato una esteriorizzazione che talvolta poteva anche apparire strumentale e sottilmente spettacolare. Essa è ormai contenuta, totalmente posseduta, tutta volta ad interrogare le motivazioni interne dei personaggi, le pieghe segrete degli avvenimenti: una formidabile tensione nella sua coerenza, tesa a sondare le ragioni più drammatiche che determinano da sempre il faticoso cammino della civiltà.

Cronaca quotidiana di un villaggio della Germania del Nord fra le due estati del 1913-14 mentre accadono avvenimenti sempre più inquietanti, descrizione di piccoli, crescenti abusi d'autorità da parte di chi la detiene nei confronti dei più sottomessi, il film non a caso termina alla notizia dell'attentato di Sarajevo all'arciduca Francesco-Ferdinando. Quelle piccole sevizie, più ancora quelle crudeli vessazioni nei confronti delle donne e di bambini che avranno trent'anni all'avvento di Hitler, faranno allora di quello spaccato rurale dalle parvenze anche buoniste se non sempre idilliache un'anticipazione dichiarata degli orrori di una storia dalla maiuscola tanto più grande della loro. “ Ho cercato di raccontare ciò che capita quando si inculcano dei valori assoluti a dei bambini. A mio avviso, questo conduce fatalmente ad una perversione di quegli ideali e a una forma di terrorismo. Fanatismo religioso o politico, il risultato è il medesimo.”

Limitare però ad una parabola sull'avvento in Germania del nazismo il seguito nevrotico di abusi, ipocrisie, gelosie e vendette di quei piccoli mostri dell'umiltà quotidiana, il pastore di anime sessuofobo, il libero-pensatore addetto al sadismo più che alla medicina, il barone superbamente indifferente, mortifica un'ulteriore dimensione della Palma d'Oro del festival di Cannes di quest'anno. La visione di Haneke ha inserito quella follia rigorista in un quadro dall'apparente equilibrio, dai significati che vanno ben oltre lo splendore di una rappresentazione che ricorda, nella purezza delle composizioni e della graduale luminosità del suo bianco e nero, quella di grandi maestri nordici come Dreyer o Bergman. Nella orizzontalità dei campi di messi estivi come in quelli livellati dalla neve ghiacciata, nella simmetria esemplare delle inquadrature, nella manipolazione prepotente permessa dal coltello affilato dell'immagine numerica, i continui cambiamenti di spazio ed azione voluti dal montaggio, l'assoluta concentrazione degli attori (il pastore, il medico, i bambini in particolare) il discorso si amplifica ed eternizza, risale alle origini per anticiparne le conclusioni.

Lo sguardo del regista trova il tempo di splendide, poetiche intuizioni che non solo addolciscono, ma rilanciano la tensione: la profonda delicatezza di un bimbo che interroga sul significato della morte; la timida dichiarazione d'amore seguita a un indimenticabile blocco sentimentale, quando il terrorismo educativo ha la meglio sul piacere e sull'abbandono amoroso nella sequenza del bacio sul calesse. L'incrinatura, nell'intransigenza morale dell'ecclesiastico quando il figliolo gli consegna l'uccellino da ingabbiare. “Un film rigoroso sui pericoli del rigore”, lo definisce l'autore. Nelle sequenze più terribili il soggetto non è ormai più quello dell'austerità morale luterana, ma di una corrosione che nasce da qualcosa di ancora più devastante della violenza fisica, quella mentale, quella dell'umiliazione. I soprusi, l'ipocrisia, la menzogna degli adulti, il moralismo che vuole sofferenza e ideologia come armi per riscattarsi dalla propria miseria, penetrano allora nella condizione silenziosa, solo apparentemente succube, in effetti drammaticamente permeabile dell'infanzia. IL NASTRO BIANCO non è soltanto la storia della genesi di fascismo e nazismo: ma di come un'idea fanatica dei concetti di bontà, morale o giustizia nella trasmissione della conoscenza finiscano inevitabilmente per corrompere ogni purezza e innocenza.


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