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ZAMA Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 marzo 2018
 
di Lucrecia Martel, con Daniel Gimenez Cacho, Lola Duenas (Argentina, 2017)
 

Dopo nove anni di assenza, dopo gli affascinanti La cienaga e La nina santa, quella che è considerata da molti la poetessa sfuggente del cinema latino-americano è di ritorno. Con un altro film intrigante, pure discontinuo; ma meravigliosamente diverso ed audace. Tratto dal bestseller argentino del 1956 di Antonio Di Benedetto, Zama (presentato fuori concorso all’ultima Mostra di Venezia) racconta dell’ufficiale spagnolo Don Diego de Zama che, alla fine del XVIII secolo, attende invano una lettera di trasferimento da parte della lontana Corona. Per ritornare da una fatiscente colonia sperduta in un angolo del Paraguay: alla propria famiglia, a una collocazione più dignitosa.

Tutto questo, Lucia Martel lo illustra a modo suo, e Zama non sarebbe da raccontare: poiché respira non tanto con la staticità degli avvenimenti, ma in parallelo ai sentimenti che governano l’intimità del protagonista. Il film assomiglia in questo alla sua regista, quando afferma un fatto più unico che raro: "filmare non è la mia follia, non è la cosa che mi sembra più interessante da fare al mondo; non ho mai voluto girare un film all’anno, ma quando scelgo un progetto dev’essere un processo che m’interessi e mi sia sopportabile per anni".

Forse anche per queste ragioni la cineasta non segue le tracce del film storico: non si perde di certo nella ricostruzione documentata degli ambienti, o nel racconto di particolari aneddoti. Non di certo su quelle parrucche spelacchiate, che i personaggi disdegnano appena svoltato l’angolo. Nemmeno, sul filo di una vera e propria progressione drammatica: piuttosto, sulle atmosfere dell’istante presente, in particolare grazie ai suoni, che invadono in continuità, provenienti da ambienti discosti. Essi ci rendono attenti su cosa abiti quell’apparente immobilità nel tempo; mentre la cinepresa ci svela certe prospettive in secondo piano, oltre una porta, una finestra, quasi sfuocate, ma quanto eloquenti. Il sogno insensato della colonizzazione si perde così in quella palude narrativa, immobile come quel mare, sfuggente come quella sabbia. Ma estremamente significativa, in quanto permette a Lucia Martel di entrare in una dimensione poetica tutta sua, pur senza ricorrere alle consuetudini abusate (ed ai mezzi finanziari occorrenti) della ricostruzione storica.

Poi, improvvisamente, nell’ultima mezz’ora, Zama si trasforma: da disadorno, stagnante che era, il film assume i colori e il rigore espressivo trascendente dell’interno delle terre. In una dimensione visionaria, fra gli indigeni dipinti di rosso, alla ricerca di un ipotetico genio del male, lo strapazzato Don Diego de Zama ha accettato la missione impossibile che gli permetterà di porre termine alla propria allucinante attesa. Concedendo a Lucia Martel la sequenza finale indimenticabile: lungo il fiume immenso che si perde zigzagando nel paesaggio sconfinato si allontana la barca dei bambini indigeni con il protagonista mutilato. Inanimato, forse, come il sogno assurdo che abbiamo chiamato colonialismo.


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