Paura della ragazzina che viene travestita da maschio per semplicemente in essere in grado di sopravvivere. Paura di sua madre ex-insegnante e di sua nonna, ormai al limite dell'indigenza; del buonuomo che la assume nella sua bottega. Paura che si scopra il travestimento. Ma, soprattutto, paura ancestrale, assimilata fino al più profondo dell'intimo, nel coro dei vicini, nei compagni di scuola, nei passanti, in coloro che partecipano, o semplicemente assistono al dramma.

Prodotto dal sempre rampante regista iraniano Mohsen Makhmalbaf (e si vede) OSAMA profitta, e nel contempo soffre, di certe sue particolarità. Quelle derivanti da uno stile che del savoir faire occidentale ha colto in particolare i vezzi decorativi, l'azzurro dei burka sempre fotogenico, luci, ambienti, fisionomie che denotano la preoccupazione costante di attenersi alle regole del bello. E quel forse utile (in termini di divulgazione), ma micidiale doppiaggio: che fa strillare i ragazzini di Kabul come fossero dalle parti di piazza San Babila.