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FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA 2014
  Stampa questa scheda Data della recensione: 10 ottobre 2014
 
(2014)
 
Tra quelli che eufemisticamente possiamo definire paradossi italiani ci stanno pure i festival cinematografici. In espansione ovunque nel mondo (talora clamorosa, vedasi Toronto), dove sempre più rappresentano un'oasi ambita da parte di spettatori, creatori e imprenditori interessati alla sopravvivenza di un cinema di qualità. Al contrario, in Italia finiscono progressivamente nell'incertezza, gli intrighi, politici e non, l'assenza di continuità e quindi di progettualità: in una dimensione culturale che pure era ancorata alle grandi tradizioni in materia, patria del neorealismo o della commedia non solo brillante.

Appena conclusa una Mostra di Venezia dalla dolorosa involuzione, puntualmente sottolineata dai media internazionali (e da un futuro minato dalla assenza, apparentemente insolubile, di uno spazio destinato a quel Mercato che fa grande Cannes, Berlino, senza parlare di Toronto), rieccoci al tribolato Festival di Roma. In procinto, quando la commedia all'italiana si vota ormai alla farsa, di ridiventare Festa del cinema. che significa ovviamente tutto e niente. Gli antecedenti sono stati fin troppo chiacchierati. Fabbricante di festival difficilmente eguagliabile ("nessun altro è più bravo di lui nel creare spettacolo e mescolare alto e basso come una centrifuga postmoderna brevettata nei tanti cinemondi possibili" ha scritto di lui un sito web qualificato come Sentieri Selvaggi) Marco Müller è ora in fine mandato. Dopo essere transitato nel 2012 fra intrighi definibili a scelta meschini, risibili o perversi, comunque scioccamente autopunitivi da una Mostra di Venezia in salute come non mai ad una manifestazione romana che dalla sua veltroniana fondazione nel 2006 non era mai riuscita a darsi una propria identità.

In un paio d'edizioni, e con un budget in pratica dimezzato, l'intervento mülleriano aveva, come dicono i francesi, rimesso il campanile al centro del villaggio. E proseguito, nell'anonimato dello spazio romano dell'Auditorium, il percorso innovativo iniziato con la sezione Orizzonti a Venezia: una sezione di riflessione accanto a quella conservata festaiola. Con "CineMAXXI" Roma si era allora ritrovata uno spazio di ricerche e conferme, esperimenti e finalità estremamente significativo, anche internazionalmente, nell'attuale precipitosa evoluzione degli audiovisivi che sta mettendo in crisi la definizione stessa di cinema. Nella sede del MAXXI firmato Zaha Hadid, accanto a sperimentatori contemporanei, anche a grandi nomi di un cinema più classico era allora permesso di mirabilmente innovare, come era stato nella prima edizione mulleriana a Verhoeven, Greenaway, Mike Figgis, e quindi al Jonathan Demme di FEAR OF FALLING.

Fra innovazione e un abbozzo in crescita del Mercato, il richiamo del festival romano si permetteva finalmente infine di allineare nella sua Selezione Ufficiale tutta una serie di pellicole risultate in definitiva fra le migliori della stagione 2013: HER di Spike Jonze, YOUNG DETECTIVE DEE di Tsui Hark, SEVENTH CODE di Kiyoshi Kurosawa, OUT OF HE FURNACE di Scott Cooper, HARD TO BE A GOD di Aleksej German, THE MOLE SONG di Takashi Miike, L'AMMINISTRATORE di Vincenzo Marra, SNOWPIERCER di Bong Joon-Ho, DALLAS BUYERS CLUB di Jean-Marc La Vallèe: o, in ambito italiano, lo stesso vincitore voluto dalla giuria di James Gray,TIR di Alberto Fasulo.

Tutto ciò risulta ora praticamente azzerato, in nome di una futura Festa che ci si augura allietante oltre che sostenuta con un minimo di coerenza e continuità da un potere, romano e oltre, finora e dir poco latitante. Dal cappello a cilindro un prestidigitatore come Muller è riuscito a cavare cio' che gli si chiedeva salvando egualmente la faccia: una kermesse ( del genere che proprio non vorremmo a Locarno) di pellicole e comparse mediatiche popolari. Ma ancora nobilitata da qualche perla resistente all'usura del qualunquismo imperante: David Fincher, Steven Soderbergh, Wenders, Jia Zhangke, Botelho, Fedorchenko, Petzold, un grande Takashi Miike, un sorprendente Richard Gere. Tutto è perduto, insomma, fuorché l'onore.

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