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FESTIVAL DI LOCARNO 2014 E ROMAN POLANSKI (1)
  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 agosto 2014
 
Polanski (2014)
 
QUANDO A VINCERE E' LA MESCHINITA' DELLA PROVINCIA

Ferragosto detta legge anche ai settimanali: stendere un bilancio del Festival di Locarno 2014 a quattro giorni dal termine sarebbe poco onesto. Gli otto giorni trascorsi di questa sessantasettesima edizione permettono però più di una riflessione. Specie se, al momento in cui scrivo, mi giunge la notizia che uno dei più grandi cineasti che il nostro festival abbia mai avuto l'insperata fortuna di ospitare, è stato costretto a rinunciare alla visita per aver constatato che " la mia apparizione a Locarno avrebbe provocato tensioni e controversie ".

Mi ero imposto di non intervenire in alcun modo sulla manipolazione in atto da settimane in Ticino del nome di Roman Polanski: di una problematica sulla quale, nel mondo intero, tutti gli interessati di buona volontà, oltre che di livello intellettuale e morale elevato, hanno disquisito e quindi risolto da tempo. Soprattutto, mi ero giurato di non alimentare in alcuna maniera il modo ignorante e provinciale, strumentale e finalizzato a personalismi meschini con il quale è stato infiltrato da una parte della Svizzera Italiana che ancora in questo momento spero minoritaria. Se così non fosse, non potrei che rinunciare ad esprimermi; poiché non potrei che giungere a una conclusione che non mi è nuova. E che ho ritrovato con sollievo in una lucidissima lettera al Corriere del Ticino di lunedì 11 agosto che vi invito a leggere: se i limiti di spazio (culturali, morali, economici) del Ticino non sono più in grado di garantire una statura internazionale al Festival di Locarno in un mondo divenuto sempre più trasparente e coinvolgente, è meglio allora che questo finisca per chiudere.

La pagliacciata Polanski, dopo quelle già meschine sul pentitismo o su un insulso porno film passato inosservato alla una del mattino è la goccia, sempre più ricorrente, che arrischia di far traboccare un vaso alimentato da interessi che sempre meno hanno a che fare con le ragioni che hanno visto nascere e durare per 67 anni ,quasi unico al mondo, un incontro infinitamente prezioso. Fatto talvolta in discrezione, ma sempre in libertà e intelligenza, in ricerca e scoperta.

Tutto questo non succede però a caso. Esistono, e sono sempre meglio distinguibili, due Festival di Locarno. Il primo, prosegue come meglio non potrebbe una sua marcia altisonante, particolarmente in un periodo incerto come l'attuale. Condotto con mano determinata da Marco Solari, l'apparato logistico della manifestazione funziona con un'efficienza e un tono che qualsiasi frequentatore dei maggiori festival mondiali vi confermerà essere di assoluta rarità. Per la qualità dell'informazione prima e durante la rassegna, l'accoglienza sempre cortese, la gestione professionale di una folla a tratti travolgente, la puntualità nel rispetto degli orari, la ricerca di una convivialità all'interno di queste prerogative.

Esiste però un secondo Festival locarnese: e questo ingrigisce, malgrado gli sforzi dei vari direttori che si sono succeduti dal 2000 in poi, con una frequenza sospetta sulla quale era forse il caso d'interrogarsi. E' una schizofrenia crescente. Fra un festival trionfalistico e visto soltanto in tal modo da un'ottica locale; e un altro, più specificamente cinematografico, anche coraggioso ma logorato da una concorrenza mondiale sempre più agguerrita e incombente. Al quale la disistima, per non dire il ridicolo provocato dalla rinuncia all'avvenimento internazionalmente più atteso di questa edizione avrà tolto ulteriormente quel poco di potere di contrattazione che aveva ancora a disposizione.

La squallida conclusione alla quale il festival è stato costretto, la sua indignata ma in definitiva rassegnata accettazione non è però avvenuta soltanto in conseguenza della pressione rozza di un calcolo interessato, da parte di qualcuno che ha subito elevato il dibattito sulla presenza di "un pedofilo impunito, che fa vita da nababbo fra yacht e ville". Se è legittimo allora preoccuparsi su quale sarà la farsa che ci aspetta fra un anno (islam, pornografia, immigrazione, omosessualità, la scelta non manca) sarà però utile domandarci se queste farneticazioni non abbiano trovato così facilmente un varco anche per lo squilibrio creatosi fra quei due festival. Uno squilibrio che ha finito per minare l'anima che teneva in vita una manifestazione settantenne, la prima a rivelare al mondo universi proibiti come erano allora il cinema dell'Est europeo o della Russia, quello della contestazione sessantottina e della Nouvelle Vague, di un Estremo Oriente ancora avvolto nelle nebbie dei totalitarismi. Un luogo di rifugio per i creatori da ogni forma di pressione. Uno spazio che, come scrive "Le Temps", ha sempre ha lottato contro i nemici della libertà, i sedicenti difensori della morale, incapaci di elevazione,e di perdono.

Ora, si tratterebbe di attenuare almeno in parte i sintomi crescenti di quella schizofrenia. Che ha tolto ogni reattività alla platea, ormai prigioniera di un'immagine dal conformismo auto soddisfatto e fortemente mediatizzato. Mai, 20 anni fa, la piazza locarnese avrebbe reagito alla faccenda Polanski con la medesima rassegnata, beata indifferenza con la quale accoglie ormai ogni fine di proiezione. Si sarebbe divisa fra acclamazioni e fischi, ma avrebbe espresso le reazioni di un'anima che costituiva la forza di Locarno. Platea, a Locarno, significa innanzitutto Piazza. Simbolo da sempre d'incontro, di discussione, di approvazione o protesta. E ora ammutolita e sterile nei confronti di temi ovviamente consensuali; ma sempre meno proficui a una riflessione squisitamente "cinematografica"; che dovrebbe pur sempre costituire la ragione prima di ogni festival. Opere dignitose e dimenticabili, che rispondono a una filosofia introdotta quasi di soppiatto, quella famigerata delle pellicole che "vadano bene per ogni genere di spettatore". Filosofia che ha abbassato progressivamente le esigenze del pubblico, lo ha svilito allo statuto di pecorone, ne ha corroso la curiosità, banalizzato lo spirito critico.

Se non vogliamo che altre faccende Polanski ci ridicolizzino appena fuori dall'ombra del nostro campanile, se non vogliamo abbandonare e ridurre gli spazi più originali che possediamo a sfilate d'invitati maldestramente esibiti e che poco hanno di che preoccuparsi della difesa di un cinema o di un festival, è su quello spazio così esposto che occorre prioritariamente lavorare. Le idee ci sarebbero, basta avere il coraggio di lasciarle affiorare.

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