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FESTIVAL DI CANNES 2014 (2)
  Stampa questa scheda Data della recensione: 28 maggio 2014
 
Dardenne, Bilge Cezlan, Leigh, Kawase, Dolan (2014)
 
GRANDI VECCHI ED ENERGIE NASCENTI

Lungi l'idea del vostro cronista di peccare di lesa maestà nei confronti di una sovrana assoluta come Cannes. Non sarebbe il caso; ma di qualche turbe soffre pure lei. Destinare alla Competizione principale quel'antologia di nomi altisonanti riservando sorprese ed energie scalpitanti alle sezioni paralleli comporta non solo frustrazione da parte da chi non sa più a che santo votarsi; ma va tutto a detrimento di una lucidità d'analisi. Tanto più deprecabile, trovandoci a cospetto della più prestigiosa e completa fra tutte le offerte cinematografiche dell'anno. Non si tratta di affermare che il meglio di Cannes 2014 lo si scopriva al Certain Regard, alla Quinzaine des Réalisateurs o alla Semaine de la Critique; anche perché nessuno riesce a vedere la metà di tutto quel ben di dio. Ma è verso la punta dell'iceberg che si finisce per volgere lo sguardo: e quando questa è illuminata da una corte di venerabilissimi astri (qualcuno più vicino agli ottanta che ai settanta), i Loach, Leigh, Cronenberg, Egoyan, Zhang Yimou, Téchiné, Godard diventa un azzardo speculare sul progresso rispetto a tanti gloriosi passati.

Osservata in quest'ottica (ma attenti alla chiusa dell'articolo) la corsa a una Palma d'Oro che i lettori già conosceranno leggendo questo righe dovrebbe andare al film indiscutibilmente più compiuto visto fin qui: quello dei due fratelli del Belgio Jean-Pierre e Luc Dardenne che però& di Palme ne hanno già vinte due (più un Gran Premio, due per l'Interpretazione, uno per la sceneggiatura). A completare una serie inimitabile di tutti capolavori iniziata nel 1999 con Rosetta, Deux Jours, une nuit non è l'unico grande film visto quest'anno a Cannes; ma è il solo che rappresenti un ulteriore, quasi impensabile (visto il proverbiale affinamento al loro lavoro da parte dei due cineasti) passo innanzi rispetto alla filmografia del proprio autore.

Di una essenzialità mai raggiunta, un'aderenza all'attualità dei problemi esistenziali, economici e sociali nei quali affondiamo, questo minuto, immenso film si fa riflessione filosofica e poetica di una giustezza toccante. Quella di Deux jours, une nuit non è che la storia dell'operaia Sandra (al solito, meravigliosa Marion Cotillard) minacciata con la sua piccola famiglia dalla disoccupazione; in un weekend, deve convincere ( o, meglio, mendicare?) i colleghi di lavoro di rinunciare a un premio offerto dal padronato, ma condizionato alla loro accettazione del licenziamento della giovane impiegata. Uno spaccato di vita dall'emozione fortissima, dalla giustezza implacabile; nel quale non c'è un segno di troppo, non un dettaglio mancante.

L'attesissimo Winter Sleep, di uno dei più grandi cineasti al mondo emersi negli ultimi dieci anni, Nuri Bilge Ceylan. Il suo pensum di tre ore e sedici minuti girato nel paesaggio maestoso dell'Anatolia ghiacciato come le relazioni umane conferma tutta l'ambizione autoriale del regista turco. Straordinario nell'approfondimento dialogato (psicologico, culturale, morale) in due lunghe rese di conti fra fratello, sorella, moglie e marito all'interno semioscuro di un albergo confinato in un universo isolato, indiscutibilmente posseduto con magistero assoluto nella scrittura, il film poggia su una grande forza d'introspezione. Che non a caso ricorda la grande letteratura russa, dei Dostojevski, dei Checov. Ripensando allo splendido precedente di C'era una volta in Anatolia nasce però il dubbio che il peso della riflessione filosofica, la volontà di chiudersi nel groviglio delle intimità, la seduzione delle metafore abbia tolto alle pellicola una parte del meraviglioso respiro poetico, della contemplazione dell'ambiente che esaltava in precedenza.

Egualmente oscurato forse ingiustamente da certi risultati trascorsi di grazia assoluta risulta un film come Mr. Turner. Mike Leigh, propone un'affascinante (ma 180 minuti erano veramente necessari?) immersione totale nel diciannovesimo secolo del grande precursore dell'impressionismo William Turner. Del pittore, come ricorda il regista, che non solo dipingeva ciò che tutti vedono: ma al di là di tutti quei cieli. Grazie alla notevole interpretazione di Timothy Spall il film penetra con una forza che non si fa mai violenza nell'intimità in apparenza anche solo banale di quella dimensione. Con humour britannico, e attenzione ad ogni genere di umori: con qualche ripetizione, ma tutto il gratificante senso della misura che si attende da un maestro.

Ma è la Palma che vorreste obbligarmi a predire? Oltre ai Dardenne, sarebbe un bel atto di fede da parte della presidente Jane Campion rivolgersi alle due più belle sorprese che ci ha riservato questo concorso di ex mostri sacri. Still the Water, di Naomi Kawase nasce nell'incomparabile arte giapponese di fondere il destino dell'uomo con il respiro della natura, nel coniugare l'immaginario con i dettagli più intimi del quotidiano. Cosi, in una straordinaria resa degli attori, l'amore fra due adolescenti, la vita che lascia nel canto il passo alla morte sono resi con la grazia che sola appartiene alle cose più fragili e quindi preziose. Al contrario, Mommy, del prodigio nascente canadese (4 film a 24 anni!) Xavier Dolan nasce nel segno dell'energia di un talento furibondo fuori dal comune. Un figlio affetto da estremi problemi di comportamento fra tenerezza e violenza, una madre vedova, disinibita e sexy che cerca di ritrovare una vita normale; e un'inaspettata vicina che completerà un trio al tempo stesso esaltato, spassoso, impossibile e commovente. Il ritmo è infernale, ma la dolcezza per i personaggi confondente. Gli attori tutti straordinari, la mobilità incessante dello sguardo del regista, la follia delle musiche, l'intelligenza dell'ambientazione conferiscono a Mommy tutta l'esaltazione che il cinema sembra avere perduto. Staremo a vedere.

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