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FESTIVAL DI CANNES 2014 (1)
  Stampa questa scheda Data della recensione: 25 maggio 2014
 
Dahan, Sissako (2014)
 
Aperta la corsa alla Palma più celebre al mondo - LA SCHIZOFRENIA CREATIVA DI CANNES

Cannes schizofrenica? Non è cosa nuova. Cinema per far soldi e, di conseguenza per chi i soldi li caccia. Nel contempo, cinema d'autore forse mai come quest'anno; con tutti i Grandi Vecchi nella competizione principale e un'infinità di Futuri Grandi ad ammiccare dalle sezioni collaterali. Ma c'è dell'altro: è la programmazione delle prime giornate che sembra essere transitata fra le mani di qualcuno affetto da quel genere di turbe.

Film d'apertura largamente pubblicizzato (l'uscita di Grace de Monaco avverrà immediatamente anche nelle nostre sale), nonché terribilmente contestato dall'Alberto regnante su Monaco e relative sorelle, in quanto la sua storia è stata stravolta a fini puramente commerciali. Luogo di provenienza? Una delle parti più privilegiate e prosperose sulla terra. Poche ore dopo, primo film in Concorso: Timbuktu, storia terribile sui rapporti fra fondamentalisti islamici e popolazioni autoctone africane, girata da Abderrahmane Sissako, grande figura del cinema di quel continente. Luogo di provenienza? Fra i più disastrati del pianeta, il Mali dov'è stato girato, la Mauritania patria dell'autore. Cinema per i più ricchi, cinema sui più poveri, schizofrenia, forse creativa.

Cannes preoccupata? Se la più parlata è di natura meteorologica, dopo la sfibrante edizione monsonica di un anno fa, c'è di più insidioso, anche perché tira in causa il nome più traumatizzante di Francia, quello di Dominque Strauss-Kahn: già ritenuto responsabile di aver distolto, grazie alle sue disinvolte scappatelle, ogni attenzione dalle giornate conclusive del Festival del 2011. Sulle celebri notti del nuovaiorchese Sofitel che costarono fra l'altro al protagonista una quasi certa presidenza di Francia, esce ora, com'è noto, un Welcome to New York firmato dal luciferino Abel Ferrara e impersonato da Gerard Depardieu. Il Festival, che i pettegolezzi ha dichiarato di non volere selezionare anche se firmati da un ex prodigio dell'aggressione autoriale , sembra dimenticare quanto oggi ci voglia ben altro per scoraggiare la febbre mediatica. Il tappeto rosso di sabato non andrà di certo disertato, ma sarà una moltitudine a spostarsi nella vicina Rue d'Antibes dove i produttori del film rifiutato hanno organizzato tre proiezioni nelle sale municipali. E, come non bastasse, un'uscita simultanea del film sulla Rete, in VOD, per sette euro&

Cannes benpensante? Eccoci serviti della prima particolarmente ingioiellata di Grace di Monaco. La vicenda è stranota (uno dei problemi del film, bisognava forse pensarci prima): alla sublime Grace Kelly, icona intoccabile nell'America degli anni Cinquanta, i conti proprio non tornano, la vita di corte non è esattamente il massimo dopo lo spasso di Hollywood. E ora c'è anche il sommo pigmalione Hitchcock che l'ha resa ineguagliabile e che la rivorrebbe in patria per interpretare Marnie. Scandalo e obbrobrio, e non solo per la love story che sta andando a ramengo: in preda a una grave crisi finanziaria, il Principato arrischia isolamento politico e boicotto, visto che Ranieri persiste nel non pagare le tasse a De Gaulle. Mentre la principessa continua a deambulare per corridoi deserti e deprimenti ritratti d'antenati piuttosto che mettere a profitto della diplomazia il proprio glamour leggendario.

La faccenda, ad essere onesti, è stata anche utilmente ritagliata dagli autori della sceneggiatura: solo un periodo preciso di pochi mesi, l'acuirsi della crisi di una donna sola, l'aggrovigliarsi di quella politica, poche immagini d'archivio dell'arrivo fiabesco e nessuna speculazione melodrammatica sull'incidente d'auto che provocherà la tragica scomparsa di Grace all'inizio degli anni Ottanta. Ma la scommessa di un film del genere girato nel 2014 consisteva in qualcosa di più banale e pragmatico: come trasformare in modo credibile Nicole Kidman in Grace Kelly. Ora, l'attrice australiana protagonista anche di alcuni grandi film (Eyes Wide Shut, The Others, Moulin Rouge) non ha nulla da provare: e la progressiva mutazione da erede di lusso dai genitori opposti a Hollywood a principessa d'operetta ma infine quasi-statista affiora dal suo viso con adeguata, a tratti toccante sensibilità. Ma perché il film si facesse introspettivo, perché la fiaba significasse finalmente l'intimo dei personaggi occorreva la forza di uno sguardo registico. Quello di Olivier Dahan (autore in passato di un più convincente biopic su Edith Piaf, La môme) sembra adeguarsi ai fuochi d'artificio sulla baia per suggerire provvisori tumulti dell'animo, intrighi e turpitudini d'appendice ed esultanze fasulle. Se Hitchcock e De Gaulle divertono poiché ben imitati, il commento musicale è da cinema ammuffito, costumi e gioielli completano adeguatamente l'arredo per chi ci crede. Mentre sulla rocca celebre il palazzo di panna montata su sfondo turchese ci rassicura pur sempre.

Cannes incisiva. Sulla Costa Azzurra, lo sappiamo, il vento cambia spesso di direzione. Già con il primo dei film del Concorso: otto anni dopo il bellissimo Bamako Abderrahmane Sissako insorge da quello che fu un centro di civiltà straordinaria, di ricerca filosofica e scientifica, rappresentato oggi da un piccolo villaggio polveroso ai confini fra la Mauritania e il Mali. Con un film splendido e feroce, per la particolarità di uno stile insolitamente mutevole, la forza poetica di certe immagini sublimi, quasi surreali, lo sdegno inaudito della denuncia politica; e, ancora, l'ironia che riesce a infondere all'accorata constatazione di questo suo ultimo Timbuktu. Le successive spoliazioni colonialiste, le lotte intestine indotte dalla miseria, e ora l'estremismo folle delle milizie jihadiste giunte in parte dalla Libia hanno mutato la serenità dei ritmi del Sahel nell'insensata violenza raccontata dal film. Non solo la fine del fumo, del gioco, del canto, di uno stato sociale accettabile della donna dietro a quelle porte ormai sbarrate del villaggio fra le dune. Ma l'opposizione degli estremisti nei confronti dei rappresentanti di una religione islamica ragionevole, l'incomprensione crudele fra degli uomini della stessa terra che per capirsi debbono utilizzare l'inglese; e la vicenda portante del film, quella di Kidane che vive nella distesa di sabbia che fa da cornice armoniosa al villaggio, che ancora riesce a suonare la chitarra per la sua famiglia di pastori poiché nessuno, quando cala la notte, arrischia di accorgersene. Sereno, anche se non ormai più fiducioso; perlomeno fino a quando una delle sue vacche non travolgerà le reti di un pescatore ancora amico. Visione poetica corale di un mondo in violenta mutazione, antologia straordinariamente eclettica (e quindi pure ineguale) di comportamenti umani, grido incontenibile di una rabbia non ancora disperata Timbuktu merita di assolutamente essere visto da ogni anima di buona volontà.

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