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FESTIVAL DI LOCARNO 2013 (2)
  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 agosto 2013
 
(2013)
 
Festival di Locarno 2013: un bilancio in crescita

QUANDO RICERCA E INNOVAZIONE SIGNIFICANO ANCHE GRADIMENTO

Nuovo direttore a Locarno, giovane, discreto, accolto inizialmente con circospezione a causa di una scelta precipitosa (tipica di un festival dove continua a mancare un vero e proprio gruppo di riflessione di stampo nazionale e policulturale), Carlo Chatrian ha da che essere soddisfatto. Non solo perché il suo festival ha messo tutti d'accordo, per il suo modo di porgersi, altrettanto documentato ma quanto più diretto, semplice e discorsivo di quello impettito del predecessore parigino Olivier Père. Ma poiché, dulcis in fundo,le conclusioni della Giuria internazionale hanno premiato, e quasi clamorosamente, l'inedita direzione che Chatrian sembra avere voluto imprimere alla manifestazione locarnese.

Lo abbiamo spesso ripetuto: fonte inesauribile d'indignazioni e ironie, il manipolo d'addetti ai lavori che sbarcano da ogni dove per raccapezzarsi su troppe ore di proiezioni, non è immancabilmente un gingillo superfluo, fuorviante o addirittura in sospetto di malafede. Talvolta, le sue decisioni coincidono con il senso della programmazione, e aiutano cosi lo spettatore ad interpretarla. E' il caso di Locarno 2013. Il Pardo d'Oro non è andato infatti al favorito, ma a uno dei film più intellettuali del Concorso, HISTORIA DE LA MEVA MORT (** ½) dello spagnolo Albert Serra. Regista vicino alla sperimentazione, già presente a Locarno, in una pellicola non breve e nemmeno evidente, intrisa di varie raffinatezze estetiche e anche di meno esaltanti tirate filosofiche, a proposito di una sorta di ritorno al mito di Dracula attraverso gli ultimi anni di Casanova. L'argento del Premio Speciale la Giuria lo ha invece assegnato a un autore egualmente vicino ad un cinema di ricerca che si sforza di uscire dagli schemi narrativi e dai supporti tecnici tradizionali, E AGORA? LEMBRA-ME (*** ½) del portoghese Joaquim Pinto: ma con un film struggente, vicino all'intimità quotidiana dell'autore, che per questa sua commovente adesione oltre che per la felicità espressiva avrebbe meritato la massima ricompensa,. Non è tutto. Della sontuosa selezione Orientale di quest'anno (non di certo indegna dei festival più grandi) il bronzo che corrisponde al Pardo per la Migliore Regia è andato all'opera più astratta, certo conclusa e magicamente fluida, del coreano Hong Sangsoo, del quale si usa dire che perfeziona sempre il medesimo film: OUR SUNHI (***) ulteriore anello di un poeta dell'incomunicabilità sentimentale, dell'impossibilità di far coincidere il trascorrere del tempo con le esigenze non solo della seduzione, ma dell'amore.

Tre premi del tutto condivisibili, quindi.

Ma, altrettanto rivelatore, soltanto seguiti, nell'ordine di merito deciso dai giurati, dai due film che maggiormente hanno scatenato gli applausi, l'entusiasmo, l'emozione dei 3000 e passa spettatori del FEVI : l'americano SHORT TERM 12 (***) di Dennis Cretton per la sua brava protagonista Brie Larson, e TABLEAU NOIR (***) del nostro quasi veterano e glorioso Yves Yersin, ai quali sono andate due non di certo eccitantissime menzioni. Due opere che egualmente guardano ai giovani e alla loro educazione (il primo sull'inserimento di adolescenti caratteriali nella società; il secondo sulla chiusura di una delle ultime scuole di alta montagna, del tutto particolare poiché anche modello di vita), due film giusti e molto riusciti. Ma, guarda a caso, d'impianto narrativo, d'approccio estetico tradizionale. Con evidenza flagrante, la svolta impressa all'edizione 2013 dal Direttore si è immancabilmente riflessa nei suoi premi.

* * *

Hanno vinto sopratutto quei tre, ma poteva capitare, quasi indifferentemente, a TOMOGUI (***) di Shinji Aoyama, splendida immersione nello sfondo di un Giappone quotidiano e qualunque, riflessione straordinaria su chi ha bisogno della violenza per amare; oppure la fantascienza visionaria vicino ai manga di REAL (** ½) di Kiyoshi Kurosawa; all'altra classe di campagna osservata con occhio tenerissimo dal taiwanese Tso-chi Chang di A TIME IN QU CHI (** ½). O ancora, all'impressionante, originale condivisione di un vissuto terribilmente privato, espresso con mezzi innovativi e poco elitari come il cellulare, del SANGUE (***) di Pippo Delbono, sbrigativamente frainteso per qualcosa con il quale non ha nulla a che spartire. Oppure al film finora più marginale di uno dei più seguiti registi dell'Est europeo, Corneliu Porumboiu, BUCHAREST OR METABOLIS (** ½), analisi originale sui rapporti fra il cineasta, i propri attori e lo spazio a disposizione. O all'antro quasi metafisico, non proprio osservato nell'ottica fiction tradizionale della GARE DU NORD (**) di Claire Simon E infine, e perché no, pellicole di ancora maggiore riflessione teorica, eventualmente vicine all'istallazione audiovisiva, come quelle di due esperti di lunga data del genere, il brasiliano Julio Bressane di EDUCACAO SENTIMENTAL (** ½) e la coppia italiana manipolatrici d'archivi audiovisivi Gianikian – Ricci Lucchi di PAYS BARBARE (**).

Risulta allora una calcata impronta di fondo: sono tutte opere che si adeguano a una svolta ben precisa, e più radicale di quella apparsa a prima vista, voluta da Carlo Chatrian. Una svolta che corrisponde logicamente, occorre dirlo subito, ad un'altra evidenza: quella che il cinema sta vivendo attualmente l'esigenza di un cambiamento altrettanto radicale, in un mondo, il consumo sfrenato delle immagini, in continua e per certi versi drammatica evoluzione.

Al centro di Locarno – e al momento attuale ci sembra la scelta indubbiamente più azzeccata – non c'è più la ricerca un po' vana dei grandi nomi tradizionali inseguiti dai festival maggiori, l'ambigua e consolatoria filosofia del più piccolo dei grandi: ma un invito alla riflessione su cosa è stato, ma non è ormai più il Cinema. Riflessione su un linguaggio in mutazione. Nella quale entra sovrana la Retrospettiva (splendida, e come poteva essere altrimenti, su un maestro come George Cukor), irrinunciabile tradizione locarnese, ma anche la proiezione in avanti dei Pardi di Domani. E la scelta degli ospiti, quest'anno più oculata che in passato: grandi personalità storiche come Werner Herzog, Iosseliani, icone gloriose che entrano in una logica di programmazione e non solo di glamour spiccio come Faye Dunaway, Christopher Lee, Jacqueline Bisset, Anna Karina, Victoria Abril.

Infine la Piazza. Gioiello esclusivo di Locarno, ardua da programmare ma carta vincente sulla quale c'è ancora da riflettere (perchè non passarvi anche alcune delle opere del Concorso? Alcune di quest'anno sarebbero state adeguate e stimolanti, anche per un grande pubblico, che non significa rassegnatamente imbranato. Ci si è già chinati con maggior attenzione che nel passato, ma un'analisi va approfondita, per giungere ad una programmazione che sia di svago (ma non di qualunquismo), di una fruizione adatta a uno spazio cosi vasto. Eppure nell'esigenza di una qualità (che non significa intellettualismo) atta a renderla sempre degna di un incontro cinematografico che deve offrire qualcosa di diverso dal multisala dietro l'angolo. Due commedie esilaranti ma acute come ABOUT TIME (***) di Richard Curtis e WE ARE THE MILLERS (***) di Rawson Marshall, due film svizzeri come L'EXPERIENCE BLOCHER (***) del nostro grande documentarista Jean-Stéphane Bron e LES GRENDES ONDES (**) di Lionel Baier, un blockbuster di qualità come 2 GUNS (** ½) di Kormakur dimostrano come anche qui la strada intrapresa può essere ricca di soddisfazioni.

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