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FESTIVAL DI CANNES 2013 (3)
  Stampa questa scheda Data della recensione: 18 maggio 2013
 
Kechiche, Panh, Zlotowski, Barnard, Jarmusch, Gray, Coen, Polanski, Ozon, Kore - Eda, Soderbergh (2013)
 
CANNES 2013: LA MIGLIORE DEGLI ULTIMI DIECI ANNI

E' stato uno dei migliori Festival di Cannes degli ultimi dieci anni. Ed è anche per questo che, una volta tanto non si può che ammirare il lavoro della Giuria; di quella manciata di più o meno spaesati specialisti in arrivo da ogni parte del mondo per giudicare, in pochi giorni, decine di opere provenienti da culture e estetiche spesso estranee dalle loro.

Dopo IL PASSATO dell'iraniano Asghar Farhadi e A TOUCH OF SIN del cinese Jia Zhangke, dei quali abbiamo riferito una settimana or sono un terzo si è aggiunto prima della fine, LA VIE D'ADELE del francese di origine tunisina Abdellatif Kechiche. E' un bilancio considerevole, eccezionale: se si considera (basta un'occhiata alle stellette della critica qui accanto…) che a quasi una decina di altre pellicole sono state assegnate le tre stelle equivalenti all'eccellenza quasi assoluta. Tutte opere che avrebbero potuto fregiarsi di una Palma d'Oro senza che nessuno gridasse allo scandalo. E alle quali potremmo persino aggiungerne alcune che avrebbero meritato la Competizione invece della rassegna collaterale del Certain Regard: come la solita sconvolgente e poetica testimonianza sulla Cambogia natia di Rithy Panh (L'IMAGE MANQUANTE), o l'originale, polemica storia d'amore all'interno di una centrale nucleare di Rebecca Zlotowski (GRAND CENTRAL).

Il festival dei Grandi Nomi, al quale avevamo spesso rimproverato negli ultimi anni di essere un comodo assieme di eterni abbonati spesso in fase di ripiegamento d'ispirazione, si è rifatto quest'anno alla grande; più cinefilo, più franco-americano ma pure asiatico, più vicino alla tradizione del concorrente veneziano di sempre. Con un unico rimprovero: di non inserire nella Competizione maggiore qualche sorpresa in più, qualche esponente delle ultime generazioni da evidenziare sullo schermo più prestigioso e promozionale che il cinema è in grado di offrire. Perché non esordienti a dir poco promettenti come la suddetta Zlotowski, o una straordinaria inglese alla quale sembra aprirsi una carriera alla Ken Loach e Mike Leigh, la Clio Barnard di THE SELFISH GIANT vista alla Quinzaine; al posto di un maestro che rincorre la propria coda come il Jim Jarmusch di ONLY LOVERS LEFT ALIVE? A farne paradossalmente le spese sono stati i giurati, costretti da tanta qualità a deluderne una parte, a premiare lo straordinario intimismo di LA VIE D'ADELE sacrificando cosi lo splendido spaccato esistenziale e politico di Jia Zhangke, probabilmente il cineasta più ispirato attualmente fra gli orientali. Obbligata quindi a mortificare un pochino con un Premio alla Sceneggiatura la magistrale incursione nei nodi famigliari del Farhadi di IL PASSATO; o a privare i formidabili Michael Douglas e Matt Damon di un Premio all'Interpretazione per la loro commovente e rischiosa intrusione nel barocco gay del mitico pianista Liberace.

Schivando molti di questi scogli, Steven Spielberg ha capitanato alla brava la sua compagine. Si era supposto, come sempre a vanvera, che dall'autore dall'impegno umanistico e la forma ormai classica di LINCON ci si dovesse attendere il premio all'opera intelligente ma consensuale. E' stato forse il caso con il premio al sensibile NEBRASKA di Payne, al pur tenero TEL PERE TEL FILS di un Kore-Eda altrimenti assai più feroce. Ma conferire la Palma d'Oro all'incandescenza privata, fisica e oltretutto lesbica di LA VIE D'ADELE ha rappresentato un notevole atto di coraggio. Non è da oggi che sappiamo quanto il modo di fare cinema di Abdellatif Kechiche sia unico al mondo. Cassavetes, Pialat, Van Sant vengono alla mente, ma già i suoi L'ESQUIVE e LA GRAINE ET LE MULET (scandalosamente privato del Leone d'Oro a Venezia nel 2007) evidenziavano una resa incredibile del momento presente, uno scavo nella verità dell'intimo sempre risolto con una naturalezza e un'emozione che non ha paragoni.

Rimane il fatto che questa straordinaria improvvisazione sulla parabola appassionata e fisicamente esplicita (ma come avrebbe potuto essere diversamente, per spiegarne la violenza emotiva delle conseguenze?) di due ragazze che si amano fino alla separazione e alla solitudine non avrà vita facile: per un argomento che l'attualità ci conferma purtroppo essere ancora scottante, un modo esplicito di affrontarlo evitando ogni ambiguità, una durata di tre ore (ma Kechiche ne aveva girate 750!) che non incanterà i distributori. L'ipocrita censura di molta parte del mondo (solo negli Stati Uniti è da prevedere l'esclusione dalla stragrande maggioranza delle sale) non compenserà il film dalle ricadute di una Palma o dall'eventuale richiamo dovuto a mal riposte malizie. Se LA VIE D'ADELE merita la qualifica di capolavoro non è perché provocatorio o spregiudicato; ma semplicemente per la delicatezza estrema di Kechiche, soltanto equiparabile alla meticolosità espressiva e quindi poetica di uno sguardo posto sulle sue due miracolose protagoniste. La sconosciuta Adèle Exarchopoulos e la già incredibilmente matura Léa Seydoux sono state giustamente accomunate nella Palma: la loro presenza, cosi giovane e matura, è indissolubile dalla commozione poetica, dall'impatto politico e cultuale offerto dal film.

I tre capolavori del festival francese non hanno per questo offuscato la commovente svolta nel melodramma di James Gray THE IMMIGRANT), l'arguzia un filo malinconica dei fratelli Coen (INSIDE LLEWYN DAVIS), l'intatto magistero compositivo di Roman Polanski (LA VENUS A LA FOURRURE), l'eleganza di François Ozon (JEUNE ET JOLIE), l'umanità serena di Hirokazu Kore-Eda (TEL PERE TEL FILS) o la disinvolta sapienza di Steven Soderbergh in MA VIE AVE LIBERACE . Lo strapotere di Cannes costituirà questa volta il riferimento di una intera stagione.

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